(Dopo una riunione al Ministero dello sviluppo economico, ascolto alcuni amici, economisti freelance molto esperti, parlare del futuro del paese in toni assai preoccupati. Chiedo spiegazioni; le ottengo; e mi preoccupo anch’io. Io avrò cento lettori, non conto niente. Però questo post lo scrivo come se fossi una superblogstar, perché credo nella capacità della discussione razionale e pluralista di contribuire a decisioni pubbliche migliori; non credo invece ci sia molto da aspettarsi dai media di massa quanto a stimolare questo tipo di dibattito. Restiamo noi, i bloggers, per quanto piccoli.)
I fondi europei sono divisi tra quelli a gestione regionale e quelli a gestione nazionale. Per decidere come spenderli, le Regioni si accordano con i ministeri competenti, decidono cosa fare e quanto denaro impegnare su ciascuna misura. Queste decisioni sono scritte in documenti che si chiamano accordi di programma quadro (APQ). Il processo di costruzione di un APQ è naturalmente lungo e difficile, ma ha un vantaggio: sviluppa rapporti tra istituzioni, genera e condivide conoscenza puntuale del territorio, anche perché prevede attività di accompagnamento alle Regioni nei casi di difficoltà. Prendere decisioni completamente fuori dalla realtà diventa più difficile. Questo modello è stato portato avanti in questi anni dal Dipartimento di politiche per lo sviluppo, un centro di eccellenza della pubblica amministrazione italiana promosso da Ciampi quando abbandonò la Banca dei Regolamenti Internazionali per venire a fare il ministro del Tesoro.
Con il disegno di legge Tremonti – che circola in bozza, e, insieme al decreto legge 112 del 25 giugno 2008, costituisce la manovra economica triennale del governo in carica – la situazione cambia del tutto. Tutti i fondi a gestione nazionale verrebbero spostati in un fondo unico istituito presso il Ministero dello sviluppo. I fondi a gestione regionale restano alle Regioni, che li destinano in totale autonomia, senza bisogno di passare per APQ. Naturalmente negli ultimi anni era stato fatto del lavoro su quelle risorse: riunioni, documenti, piani strategici, tavoli istituzionali. Tutto da buttare, uno spreco pazzesco.
Il segnale mi sembra molto chiaro. Dopo dieci anni in cui si è cercato di costruire rapporti tra istituzioni, lo spazio per le istituzioni si restringe, e ritorna la politica. Ci sarà una stanza a Roma in cui si deciderà, ad esempio, se fare la Napoli-Bari, e da dove farla passare. Chi vorrà fare udire la sua voce in quella discussione dovrà trovare un canale privato o di partito con un ministro o un sottosegretario: quelli istituzionali, che non sono mai stati molto tonici, si atrofizzeranno del tutto. Nelle Regioni, caduto il bisogno di confrontarsi nel merito con l’autorità centrale torna la politica locale, l’autoreferenzialità delle decisioni, l’attenzione spasmodica al campanile.
I media di questa cosa non si sono accorti, e preferiscono riempire le pagine di casta, fannulloni, segnalazioni per le attrici. Questi problemi ci sono, ma sono molto, molto meno importanti del funzionamento normale della pubblica amministrazione. Spostare l’attenzione dalla cattiva progettazione del sistema alle sue degenerazioni più grottesche permette di attribuire i fallimenti amministrativi a una causa facile da capire (il fannullone, il raccomandato), sollevando l’opinione pubblica dalla responsabilità di farsi un’idea vera di quello che vuol dire gestire un paese.
Il Ns. è un paese in via di (sotto)sviluppo…. se procediamo su questa strada, l’Argentina riderà di noi..
Che amarezza
Mi pare l’opportunita’ di fare un po’ di federalismo all’italiana. Nell’Italia, il ruolo della regione e’ sempre confuso. Rassomiglia uno stato degli USA, o rassomiglia le regioni (immaginarie) francesi? Ma–quando il governo a Roma (a Washington) si deteriora, in qual luogo sara’ possibile far i cambiamenti, i progetti? La politica di Bush e Berlusconi consiste nello sfruttamento e nella corruzione degli istituzioni pubbliche. Non c’e’ dubbio. Dove si fa la cultura per ristabilirci, la politica assai ridotta, anzi nascosta, nel frattempo? Nello “strato” della societa’ locale–lo stato (americano), la citta’, la regione, il quartiere, your neighborhood. La Supreme Court of the United States ci insegna di non avere la fiducia negli organi dello stato centralizzato. Think of the experimentation at the local level in Illinois and Wisconsin (where we hope to see you soon). Don.
Al di là di qualche inesattezza, il quadro è quello che dici tu. Ha a che fare con le regole (o la mancanza thereof) dei rapporti fra istituzioni del nostro paese, quando si tratta di prendere una decisione importante. Temo perciò che sia una questione troppo complicata perchè faccia mai notizia sui nostri giornali. neanche la maggioranza dei nostri accademici, formati ad una cultura tutta teorica e poco pragmatica, ci capiscono molto, perchè non fanno la fatica di interessarsi veramente di come funzionano queste regole.
L’aspetto positivo però c’è. Quello di ritornare ad un maggior livello di arbitrio e scarsa trasparenza era il senso di direzione che quei provvedimenti avevano inizialmente cercato di imprimere. La società è però ormai troppo pluralistica perchè il tentativo potesse andare in porto intatto. Nessuno nel sistema ha così tanto potere per decidere queste cose da solo.
Le Regioni si sono opposte, il disegno di legge subirà molti interventi da qui al voto. Stiamo a vedere come andrà.
Certo un’altra cosa su cui il tuo intervento mi fa riflettere è che la semplicità dei processi di decisione è un valore che andrebbe promosso. Il decision-making ha una sua estetica nella linearità che lo rende comprensibile. Un processo cattivo,ma semplice può essere meglio di uno farraginoso ma più sensibile e democratico. Il primo lo capiscono più persone ed i suoi difetti diventano chiari. Il secondo, chi lo difende?
La proposta di Don è sensata, e iniziative locali promettenti in Italia ci sono già (40xVenezia, per dirne una). Il commento di Tito è profondo come sempre, e mi sembra immportante la riflessione sul carattere irreversibilmente pluralistico della società italiana. Quanto ai processi decisionali, invece, non sono d’accordo: per ragioni lunghe da spiegare, credo che applicare processi “cattivi ma semplici” a problemi complessi non possa che produrre cattivi risultati. Credo che i processi buoni vengano difesi dalle persone che vi partecipano e li capiscono: il problema è la trasparenza, il raccontarsi attivamente. Su questo versante, purtroppo, il DPS non è stato particolarmente efficace fino a qui.
Grazie Alberto per il tuo post che, così come tutto quello che stai facendo con il progetto Kublai, contribuisce a darmi un’idea di realtà di cui nulla sapevo e che, è vero, trovano ben poco spazio sui media mainstream. Sono più che convinta che le strutture “spieghino” i fenomeni ben più dei singoli fatti e fatterelli di cui invece i giornali son pieni. Ma va detto che raccontare in modo semplice e accattivante una struttura è cosa non facile… e tu ci sei riuscito 💡
Tornando al merito del tuo post, mi piacerebbe molto ascoltare anche una controvoce per farmi un’opinione più ragionata. Cioè quali erano i demeriti dell’assetto attuale e quali sarebbero i vantaggi del nuovo, nello spirito di chi lo vuole (sono infatti convinta che chi fa le leggi, chiunque sia, non pensi SOLO male e sbagliato per programma o per intrinseca malvagità 😈 ). Chissà se qualcuno mi accontenta…