Sto rileggendo il bellissimo The virtual community, e non posso fare a meno di paragonare il senso di comunione che Rheingold avvertiva sul WELL nel 1993 (lo chiama proprio “communion”), con quello di estraneità che mi accade talvolta di provare sui social network del 2009, e che ha espresso molto bene Enrico nella sua nota di addio a Facebook. Cosa ci facciamo qui? Come ci siamo finiti, se la rete del 1993 era quella descritta da Rheingold?
Mi chiedo se questo abbia a che vedere con il crescente protagonismo in rete di persone e imprese che cercano di rileggere Internet come uno strumento per la comunicazione aziendale e il marketing. Non ho niente contro il marketing e la comunicazione: persone a me molto care, sia in rete che fuori, si guadagnano da vivere proprio in questo campo. Ma non mi piace che nei social network moderni non sia sempre facile capire se i tuoi “amici” sono persone, aziende, a volte persone che in certi casi parlano a nome di aziende. La pubblicità è pervasiva e lo è a volte in modo subdolo, per cui ci si ritrova esposti a messaggi promozionali in un contesto relazionale senza preavviso. E’ come se invitassi degli amici a cena, e uno di loro usasse l’occasione per tentare di vendermi una polizza assicurativa. L’effetto netto di queste cose, com’era prevedibile, è la diffidenza: ogni contatto umano in rete comincia ad apparirti sospetto, banalizzato.
Nel 1600 inglese persone intraprendenti cominciarono a recintare le tradizionali terre comuni (commons) per coltivarle e appropriarsi del relativo profitto, distruggendo una risorsa economica molto importante per le famiglie povere, ma non era proibito. Sarebbe stato stupido non approfittarne. Se non l’avessero fatto loro l’avrebbero fatto altri. Ne seguì l’azzeramento completo delle terre comuni. Mi sembra che il passaggio da comunità virtuale a social network comporti un’azzeramento dei commons digitali, creati dalla ricerca governativa dell’era Sputnik e oggi appropriati dalle aziende a fini di promozione e intrattenimento; con l’aggravante che, venendo a mancare lo spirito di condivisione dell’etica hacker, potrebbe rallentare anche il formidabile generatore di innovazione che la rete è stata fino a oggi. Mi chiedo, e chiedo a voi: è inevitabile tutto questo?
UPDATE: qui la discussione su Friendfeed.
Questo è il titolo del libro di cui ti parlavo l’altra sera: Communities of Practice: Learning, Meaning, and Identity di Etienne Wenger.
E’ un po’ datato, ha dieci anni ormai, ma trovo che sia ancora attuale.
Tati, ne ho sentito parlare (è molto citato) ma non l’ho mai letto. Mi ero fatto – chissà perché – l’idea che communities of practice fosse un concetto più business, con virtual community più personale. Probabilmente sbaglio, cercherò Wenger.
Pingback: Notizie dai blog su Tu Vs Social Network Vs Social Network
Pingback: Notizie dai blog su Social network & Internet vs Tv
salve,
sono alla ricerca di materiale che tratti appunto del confronto tra il concetto di virtual community e social network, lei saprebbe indicarmi alcune fonti?
Thomas
No, al di là dei testi citati nel post e nei commenti non saprei cosa indicarti. mi spiace.