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Mi sono divertito molto al seminario di Modena, ma credo di avere sovrastimolato parte della platea. Lo dico perché la discussione seguita alla presentazione del paper si è incentrata soprattutto su un aspetto “ideologico”, quello del rapporto tra arte e mercato. Antonella Picchio diceva di essere preoccupata per gli artisti trattati come merce; io ho provato a risponderle che il mercato siamo noi, ma per lei questo significa essere immersi nell’ideologia liberista del mercato come democrazia, dell’acquisto come voto ecc. Antonio Ribba, invece, mi ha chiesto se non penso che comunque l’arte non commerciale vada sostenuta, per evitare “di chiudere il Teatro San Carlo di Napoli”, che non è sostenibile in nessuno scenario a causa del morbo di Baumol.
Provo a chiarire la mia posizione:
- il problema del sostegno pubblico all’arte è un problema classico di fallimento del mercato, affrontato con il quadro teorico della microeconomia pubblica. Io di questo so poco, anche se prendo atto del fatto che Peacock [1993] sostenga che non esistono argomenti convincenti a favore dell’idea che lo stato debba sostenere l’arte.
- come ha detto Paolo Bosi il mio paper si occupa di un problema totalmente diverso, che è quello dell’uso delle industrie creative come asse di politiche per lo sviluppo economico (più in chiave di competitività nazionale che in chiave di coesione territoriale)
- comunque, il mercato visto dal mondo creativo (penso soprattutto alla musica, ma ho provato a fare anche un caso non artistico – ma forse creativo sì – quello di Ducati) non è la cosa che ha in testa Antonella. Mi sembra che sia un po’ finita l’era del consumo culturale passivo, che passa attraverso mezzi di comunicazione di massa ed è spinto da tecniche di persuasione occulta. Quando ero piccolo tutti guardavano Happy Days prima del telegiornale della sera e poi ne parlavano a scuola il giorno dopo: oggi i ragazzi partecipano a gruppi di interesse su internet in cui si interessano di manga giapponesi o di sport esoterici. Oggi, per parafrasare il Cluetrain manifesto, i mercati sono conversazioni umane, e parlano con voce umana. Il mercato del mio gruppo, i Fiamma Fumana, è fatto da gente come me: gente che ama la diversità, i suoni del mondo, le cornamuse, le voci delle mondine e le console dei dj e i loro omologhi mongoli o etiopi, e non ha nessuna voglia di stare dietro all’ennesimo idolo di plastica o al prossimo Grande fratello. E’ gente che rispetto e stimo. Se questa gente compra i miei dischi, mi onora e mi fa oggetto di mecenatismo; se smette di comprarli probabilmente è colpa mia, ho fatto un brutto disco. Nel rapporto con loro trovo la mia libertà artistica: se lo stato mi passasse uno stipendio fisso “perché sono un artista” ma mi impedisse di cercare il rapporto con queste persone non mi farebbe un favore. Anche l’arte è come una conversazione, o come il sesso: si può fare anche da soli, ma non viene altrettanto bene.
- l’utopia del Cluetrain manifesto non è più tale, perché la tecnologia ha abbattuto (e talvolta azzerato) i costi di distribuzione dei prodotti creativi; contestualmente ci ha dato il “web sociale”, le comunità come Myspace o Last.fm in cui possiamo ritrovarci con le persone che condividono le nostre stesse passioni e farci contagiare da passioni nuove. L’effetto di questa situazione è che puoi vivere di nicchie: anzi, secondo me succede che i progetti artistici acquisiscono una nuova radicalità, perché l’adesione tiepida e distratta di grandi masse non ti dà reddito (al massimo quelli scaricano i tuoi pezzi da eMule), mentre il sostegno convinto di una piccola minoranza sì.
Si capisce?
PS – Potete scaricare le slides della presentazione o l’intero saggio.
Mi sono divertito anche io al tuo seminario. Molto interessante.
Premetto che ritengo meritorie le iniziative pubbliche volte a studiare-stimolare lo sviluppo di industrie creative e, quindi, di conseguenza importante la tua ricerca e consulenza sulle politiche per la creatività.
Tuttavia, ritorno brevemente sul punto che ho sollevato nella discussione seguita alla tua relazione.
La mia osservazione sui teatri lirici, ma anche i riferimenti alle difficoltà di Woody Allen nel trovare finanziamenti negli USA perchè i suoi film non incontrano il gusto del mercato americano, volevano semplicemente inserire qualche granello di sabbia negli ingranaggi scorrevoli della tua tesi secondo cui tra arte e mercato vi è un naturale rapporto amoroso.
Il rapporto amoroso può sussistere tra mercato e arte commerciale. E mi pare che, in sostanza, iniziative come Visioni Urbane si rivolgano a questo segmento, importante, della creatività.
Ma non mi pare che si possa fare un fascio d’erba unico nelle politiche culturali assimilando il concerto del brillante gruppo musicale pop alla rappresentazione delle Nozze di Figaro. Infatti, non esiste ampiezza del mercato tale da consentire ad un complesso allestimento d’opera di coprire i suoi costi di produzione. Ma questo esempio si potrebbe estendere ad altri campi, spaziando dal teatro al cinema d’autore più raffinato.
Certo, la identificazione della linea sottile che discrimina arte commerciale da arte pura e dura è materia scabrosa. Soprattutto per quanto concerne la separazione delle opere d’arte contemporanee dai bidoni. Che invece sul passato, penso, ci si mette d’accordo più facilmente.
Tuttavia, un qualche sforzo di separazione credo sia richiesto.
Peraltro, non sono del tutto convinto del fatto che la tesi di Paolo Bosi, che qui tu sostieni, sia del tutto fondata. Ovvero, discutere nell’ambito delle tue ricerche e del tuo lavoro, del rapporto arte e mercato è affare centrale (e non a caso alcune interessanti pagine del tuo paper sono all’uopo dedicate). Non fosse altro che per una semplice ragione: assunte come, più o meno, date e limitate le risorse pubbliche a disposizione della cultura ed essendo queste risorse, in astratto, impiegabili in forme e modalità variegate, identificare l’oggetto delle attenzioni è operazione fondamentale.
Non per puro caso, la tua ricerca suggerisce, tra le righe, che i modi di allocazione delle risorse pubbliche per l’arte andrebbero (quasi) completamente ripensati.
Mi rendo conto che trattasi di un commento assai brodoso e me ne scuso.
Antonio Ribba
Hmmm. Il fatto è questo: secondo me non ha (più) un gran senso parlare di mercato al singolare: tanti sono i mercati, – conseguentemente – tante le nozioni di “commerciale”. Io vivo e conosco benino il mercato world music, dove “commerciale” in questo momento vuol dire band di ottoni che fanno musica zingara. Non ha alcuna connotazione negativa, non vuol dire sputtanato, vuol dire che in questo momento questo mercato ha voglia di sentire queste cose e le compra.
In realtà, se vi interessa, vi posso cercare qualcuno che vi tiene un seminario sulla nozione di “mercato” che viene avanti da Cluetrain Manifesto e cose affini. Che ne dite, vi interessa?
Il seminario è stato molto interessate e stimolante. E poi Alberto mi ha trasmesso entusiasmo, passione e voglia di fare. Grazie.
Prima di crollare dal sonno, due brevi considerazioni, una sul mercato e una sulle politiche pubbliche.
A proposito di mercato, penso che per l’arte, come probabilmente per la creatività in genere, non si possa parlare di un solo mercato, ma sia più corretto parlare di tanti piccoli mercati molto specializzati e diversi tra loro, che rispondono a logiche molto diverse da quelle del mercato tradizionale.
Lavorando insieme a Giulia Bondi a una ricerca economica sulle condizioni di vita e di lavoro dei giovani artisti visivi in Italia (che è diventata un libro intitolato “Non di sola arte. Viaggio in Italia tra voci e numeri della giovane arte contemporanea”), mi sono convinta che il mercato non è poi così male, che davvero è quel “meccanismo imperfetto ma comunque indispensabile” attorno al quale ruota il sistema dell’arte e che rimane tra i più potenti strumenti che abbiamo a disposizione per attribuire valore a un oggetto. Un artista che abbiamo intervistato, a proposito di arte e mercato, ha detto: “l’arte contemporanea conosce una sola forma di censura: quella sulle opere che non si vendono”, un altro “perché una cosa abbia senso deve partecipare al circuito dello scambio”, e molti altri la pensano così..
Sul sostegno pubblico all’arte (e anche in questo caso il discorso penso possa essere allargato a tutto il mondo della creatività), secondo me bisogna distinguere tra sostegno diretto (e monetario) agli artisti (che fa più male che bene) e invece politiche pubbliche volte a promuovere il dialogo, l’incontro e lo scambio, volte a costruire quelle reti eterogenee per la diffusione dell’innovazione di cui si parlava al seminario (che invece penso sarebbero molto opportune). Politiche che stanno tra quegli interventi “molto difficili e poco costosi” di cui parlava Brusco una quindicina di anni fa a proposito di sviluppo locale, e che mi sembra sarebbe opportuno promuovere ancora oggi e estendere a tanti altri campi oltre all’industria.
Per concludere e andare a letto, penso davvero che sia importante lavorare per ottenere un maggiore (adesso a me sembra praticamente nullo) coinvolgimento di risorse creative (e penso soprattutto a gente giovane, fuori dai soliti giri e dalle solite logiche) nelle scelte di sviluppo del nostro Paese. E se Blair su questo ci può insegnare qualcosa, invitiamolo al prossimo seminario!
silvia sitton
Ho letto il libro di Silvia (mi pare un ottimo lavoro). Anche i “suoi” artisti sembrano condividere ciò che pensano i “miei” musicisti, cioè che il mercato è un importante luogo della comunicazione culturale, forse il più importante. Il lavoro di Anderson, che citavo nel seminario e nel post, fornisce appunto una discussione delle condizioni tecnologiche ed economiche che consentono l’emersione di mercati (al plurale) al posto del mercato di massa al singolare).
Molto d’accordo, ovviamente, sulle forme di sostegno pubblico all’arte e alle forme creative.
Con la distinzione tra arte commerciale e non commerciale si iniziano già a separare i diversi mercati. Che poi vi sia la necessità di individuare ulteriori segmentazioni mi pare del tutto ragionevole.
Non uso “commerciale” come giudizio di valore. Più semplicemente nel senso di prodotto creativo che, almeno potenzialmente, è idoneo a coprire i costi di produzione necessari.
Certamente, produrre arte per il mercato non è “un male”. Ci mancherebbe altro. Tra l’altro non ci sono oggigiorno grandi alternative.
Tuttavia, l’arte è spesso refrattaria ad una valutazione di qualità affidata unicamente al giudizio del mercato. O, se preferite, al giudizio dei mercati, al plurale.
Naturalmente, il problema non si risolve necessariamente con il finanziamento pubblico, in quanto si può sempre pensare di affidare il finanziamento delle arti non commerciali, al settore privato, attraverso fondazioni, donazioni e quant’altro.
Antonio, non sono sicuro che la distinzione commerciale/non commerciale sia utile (e certo è difficile da difendere). Tra l’altro, come vedi, essa implica un conflitto politico, perché l’arte non commerciale, va da sé, deve avere soldi pubblici. Oltretutto, guarda: va benissimo fare residencies sussidiate in cui uno fa ricerca pura, ma se Woody Allen trasferisce le sue produzioni da Hollywood a Parigi – e le taglia da 60 milioni di dollari a 10 – secondo me non è che sta facendo arte non commerciale: si è focalizzato su un segmento particolare di pubblico, che è anche quello su cui è più forte. Il prodotto di Hollywood è “Spiderman III”, non “Tutti dicono I love you”, e Woody Allen “Spiderman III” non lo sa fare. Insomma, la sua non è una nobile rinuncia in nome dell’arte ma un’operazione di marketing del tutto razionale, e secondo me NON va assolutamente sussidiata. Che ne pensi?
Alberto, mi pare un’analisi perfetta quella relativa al Woody Allen europeo. Egli rimpicciolisce la produzione e cerca un equilibrio tra costi e ricavi ad un livello che prevede, probabilmente, una platea più ristretta. E’ esattamente la operazione che ha fatto Coppola con il suo ultimo film (che non ho ancora visto).
Aggiungerei solo che si tratta di costrizione più che operazione di marketing. Infatti, Coppola ci ha messo capitali propri per non dover contrattare una produzione hollywodiana.
Assurdo il solo pensare di sussidiare Allen o Coppola, pienamente d’accordo.
Credo che il vero rovello della distinzione arte, commerciale o non, stia nel problema di identificazione dell’oggetto: i mercati votano l’artista con i tacchi; ammesso invece che esistano prodotti culturali di elevata qualità che non incontrano i favori dei mercati, chi stabilirà il loro merito e quindi l’eventuale sussidio?
Concordo che rivolgersi a Diliberto per avere un voto sulla Corazzata Potiomkin non è una soluzione ottimale.