Da circa un anno corro con una certa regolarità. Ho iniziato per avere un’alternativa alla palestra che posso portare con me quando viaggio, ma adesso le mie motivazioni sono molto più profonde. La corsa ha aperto una porta su una strada nuova e interessante, che non riguarda solo me ma tutti noi.
Il fatto è questo: correre genera dati. Molti dati. Dati su di noi. E noi li consumiamo, con un appetito che cresce continuamente.
Considerate, per esempio, la mezza maratona della Stramilano, che ho corso domenica. Gli oltre cinquemila partecipanti costituivano forse il gruppo di grandi dimensioni più accresciuto dalla tecnologia a cui abbia mai partecipato. Nel pettorale con il numero di gara è inserito un transponder; combinato con i rilevatori sparsi lungo il percorso e un cronometro preciso, questo permette di tracciare in modo molto preciso la prestazione di chi lo porta. La mia è questa:
Ci sono molte informazioni in questa tabella. Non solo la mia posizione in classifica assoluta e per categoria; non solo il mio tempo ufficiale (dal momento del via al traguardo) e quello reale (dal momento in cui ho attraversato la linea di partenza all’arrrivo); ma tutte queste variabili, più la velocità media cumulata, rilevate su quattro tronconi del percorso (da 0 a 5 km; da 5 a 10; da 10 a 15; da 15 a 21,097). Come potete vedere, ho avuto problemi all’inizio, con una velocità media piuttosto bassa: 5’12″/km (sono rimasto imbottigliato dietro corridori più lenti di me). Nei tratti successivi, però, mi sono in parte riscattato: la mia media è scesa a 4’30” per i successivi dieci chilometri, per poi risalire a 4’39” agli ultimi sei. Alla partenza avevo probabilmente quattromila persone davanti; al quinto chilometro ne avevo ancora duemilacinquecento; nei sedici chilometri successivi ho superato quasi ottocento corridori. L’errore più significativo che ho fatto è stato di non cercare di portarmi più avanti nella griglia di partenza; probabilmente questo mi è costato due minuti sul tempo reale, e tre su quello ufficiale.
Ma questa è solo una parte della storia. Praticamente tutti i partecipanti alla gara si erano attrezzati con proprie forme di rilevazione ed elaborazione di dati: GPS in tasca, accelerometri nelle scarpe, fasce con cardiofrequenzimetri intorno al torace, cronometri al polso. Vengono elaborati in locale e restituiti al corridore in tempo reale (il mio iPod mi segnala distanza percorsa, tempo di percorrenza e velocità istantanea). Poi vengono scaricati su sistemi massivi di cloud computing ed elaborati di nuovo, per programmare gli allenamenti e tenere conto dei progressi. Io, per dire, so esattamente che, da fine luglio 2010, ho percorso 609,17 km di corsa in 51 ore, 3 minuti e 8 secondi complessivi, a una velocità media di 5’03″/km, consumando 39.305 calorie. Ho traccia di ogni allenamento. So assolutamente tutto.
Questa conoscenza mi dà controllo. I dati, rielaborati e interpretati, ci rendono più veloci. Gli atleti con un minimo di esperienza li usano per impostare strategie di gara. Se corri in grandi gruppi, senti congegni di ogni tipo trillare in continuazione, e non è raro sentire corridori dirsi cose come “siamo dieci secondi in ritardo”. La folla della Stramilano ha correva avvolta da una nuvola di computazione.
La corsa è solo un esempio di una tendenza generale verso l’aumento della densità computazionale delle nostre vite. Monitoriamo, registriamo e quantifichiamo i nostri spostamenti, le nostre reti sociali e professionali. Sempre di più facciamo lo stesso per il nostro corpo fisico, tenendo traccia di metriche come il peso, il tasso glicemico, la percentuale di grasso sulle masse corporee. Sequenziamo il nostro DNA. Per ciascuna di queste metriche, fisiche o sociali, sono disponibili uno o più servizi online che ci consentono di condividerle e di farne argomenti di conversazione. Gli americani parlano di “quantified self”, del sè quantificato. È un movimento in via di rapida diffusione, perché i dati ci consentono di esplorare come il nostro corpo reagisce agli stimoli più diversi, e comportarci di conseguenza. Se scopro che un certo tipo di allenamento migliora le mie prestazioni, o che un certo tipo di dieta mi fa perdere rapidamente grassi, posso usarli per raggiungere i miei obiettivi di prestazioni o di percentuale di grasso corporeo. Se quantifico me stesso, posso modificarmi. La disponibilità di dati e capacità computazionale apre la strada per il body hacking.
La parola “hacking” in questo contesto ha tutti i significati al posto giusto. Come gli hackers originali, anche i body hackers sono abbastanza esterni al sistema da potersi permettere di essere molto radicali. Come dice Tim Ferriss: “Non sono nè un medico nè uno scienziato. La mia carriera non mi richiede di pubblicare per forza. Posso testare le mie ipotesi su me stesso, con metodi che medici e scienziati non possono rischiare. Mettendo in discussione le ipotesi di base, posso scoprire soluzioni semplici e insolite a problemi resistenti.” È esattamente un discorso da hacker: acquisisco una formazione da autodidatta su un argomento e uso una tecnologia di facile accesso per smanettare. È il presupposto dell’innovazione aperta.
La Stramilano per me è stato il primo segnale che la quantificazione del sè fisico sta diventando un fenomeno di massa. Aspettatevi un’ondata di innovazione aperta, e una nuova generazione di hackers. Ma stavolta saranno i nostri corpi a fare da laboratori — e da prototipi.
nerd 🙂
Seriously, it’s a fascinating subject. Also a bit scary, if seen through a different lens.
It’s also something we did before the internet and affordable bio-metrics as well: think analogies with amateur radio, or flight simulator niche communities – we were turning the invisible into quantifiable data, pushing boundaries and hooking up through achievements, looking for patterns, searching metaphorical answers to long-standing questions.
Now of course affordable techno-gadgets and infrastructures turned it up a notch, allowing for (critical) mass adoption and a shift of focus to more “common”, social, everyman’s interests. And this is truly exciting.
Caro Alberto, la mezza maratona di Milano hai dimostrato quanti dati fornisce la mezza maratona di Milano e di come la misurazione (con annessi e connessi nell’analisi dei dati raccolti) stia entrando prepotentemente anche nella vita quotidiana.
Fra tutti i dati però uno mi è sfuggito: sei diventato l’economista più veloce di Milano come promettesti davanti ad un caffè in piazzetta Savoia a Cagliari qualche sabato fa?
Caro Marcello, hai trovato un’area ancora non coperta dalla nuvola di dati! In effetti, inspiegabilmente, mancano le classifiche basate su caratteristiche: classifica per professione, per scuola frequentata, per hobby, per segno zodiacale… 😉
Affascinante, qualche tempo fa avevo letto un articolo su questo tema sul Tech, la rivista dell’MIT che ricevo, se vuoi lo recupero.
Un punto stimolante per me è che le sperimentazioni su se stessi non sono scienza. L’esperimento per essere scienza deve essere riproducibile su qualunque corpo, ed ogni corpo è diverso. Di qui la nascita della statistica medica, che, così come quella economica, nasce per dare veste scientifica alle esperienze delle persone, che prese una per volta non lo sono. Bisognerà vedere se un giorno tutta questa massa di dati sarà aggregata in un unico database. La vedo difficile perchè sono dati personali e ci vorrebbe un consenso; ma raccogliere solo quelli di coloro che acconsentono vizia la scientificità delle analisi. E ritorniamo ai problemi ben noti dll’econometria che, giustamente, scienza non è.
Per cui temo che non riuscirai mai a sapere se sei l’economista più veloce di Milano.
Per me però sei probabilmente il più bravo, ma questa è solo la mia verità.