Oltre le tre F: il reddito minimo come politica per l’innovazione

A tre mesi dal lancio di Edgeryders, mi colpiscono la generosità e la creatività con cui tanti giovani affrontano il loro viaggio nella vita. Alcuni abbandonano il percorso di carriera più naturale, in cerca di altro e a costo di sacrifici; moltissimi desiderano di “fare qualcosa di utile”. Pensano in grande, e non hanno paura di misurarsi con problemi globali come la sicurezza alimentare, la riprogettazione della socialità, l’accesso agli alloggi. Tutta questa energia si incanala in attività di innovazione, spesso molto ambiziosa e radicale: agricoltura urbana, co-housing, moneta sociale, dati pubblici aperti, giochi urbani per riappropriarsi di spazi pubblici, home schooling, apprendimento peer-to-peer.

A innovare è una minoranza, come e sempre stato. Ma questa minoranza ha due caratteristiche nuove rispetto al passato: è numericamente consistente, fatta di milioni di persone anziché di decine di migliaia; ed è autoselezionata, e molto diversificata al suo interno. Sebbene essa annoveri molti membri dell’élite, in possesso di credenziali accademiche prestigiose, ospita anche molti spiriti liberi, persone che non hanno finito gli studi perché insofferenti alle gerarchie accademiche, autodidatti. La distanza tra i giovani innovatori e l’élite è marcata da un fatto evidente: quasi tutti questi innovatori sono poveri , appena in grado di mantenersi ma impossibilitati ad accumulare ricchezza materiale (hat tip: Vinay Gupta). Circola la battuta che, se cerchi i capitali necessari a lanciare un’iniziativa di innovazione sociale, è inutile rivolgersi a banche, venture capitalists o pubblica amministrazione. Gli unici che ti aiuteranno sono le “tre F”: family, friends, e fools (hat tip: Alberto Masetti-Zannini).

La scala e la diversità della minoranza degli innovatori apre una prospettiva completamente nuova: quella di una politica adattiva dell’innovazione. Oggi le politiche dell’innovazione funzionano selezionando a priori, con l’aiuto di famosi accademici, poche direzioni di ricerca strategiche, in genere articolate in termini di big science (per esempio la fusione fredda o la nanotecnologia) e concentrandovi grandi quantità di denaro pubblico. Oggi è possibile un approccio diverso: fare molti piccoli investimenti, in una logica di diversificazione, lasciando che tantissimi innovatori scelgano da soli quali problemi affrontare e come; monitorare per l’emergenza di soluzioni interessanti e scalare poi gli investimenti su quelle, premiando quindi non la direzione delle attività innovative i loro risultati. Questo approccio ha i vantaggi di dipendere assai meno dalla saggezza a priori del policy maker; e di scoprire a posteriori quali sono i problemi che la comunità degli innovatori ritiene più pressanti, e quali le linee di lavoro più in grado di produrre risultati concreti per la loro soluzione. È un approccio low cost alla valutazione, attività molto costosa se fatta bene.

Pensavo a queste cose domenica, assistendo a un convegno in cui si discuteva di reddito minimo. Nella sua versione più semplice, si tratta di un reddito sganciato dal lavoro o dal possesso di ricchezza: vi hanno diritto tutti, per il solo fatto di esistere. Non sono un esperto, ma ho capito che viene inquadrato come una misura volta a ristabilire la dignità delle persone, a renderle più sicure meno ricattabili. Tutto questo ha molto senso, ma mi viene da pensare che il reddito minimo potrebbe essere anche una misura di politica dell’innovazione: liberi dal bisogno immediato, soprattutto i giovani sarebbero più in grado di assumersi dei rischi, lanciandosi in nuove idee. La maggior parte fallirebbe, come sempre accade, ma questi fallimenti costerebbero pochissimo), e quelle di successo potrebbero avere impatti straordinari, largamente in grado di pagare i costi dell’intera operazione. In effetti credo che il costo per la collettività del reddito minimo sia zero: anche adesso nessuno muore di fame, si tratta solo di spostare capacità di spesa da soggetti garantiti a soggetti non garantiti!

Tutto questo si traduce in un mix di politiche dell’innovazione che investe meno su attività (come la ricerca di laboratorio) o su organizzazioni (imprese o università) e più sulle persone. L’idea di base è metterle in grado di attaccare i problemi che ritengono importanti, poi togliersi di mezzo e valutarne i risultati. Che è poi semplice buon senso, a meno che non si ritenga che le persone – i giovani, in questo caso – siano normalmente ciniche, pigre o peggio.

3 pensieri su “Oltre le tre F: il reddito minimo come politica per l’innovazione

  1. Tiago

    So what you’re saying is, just as we have MNCs that externalize R&D through startups, the Government would use Basic income as seed money for young ProAms until ready for next steps?

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  2. Matt

    Just stumbled on your blog again from unrelated googling and enjoyed some posts 🙂 incl. the long version about the two variants of “smart” in cities

    Here’s one more alternative to unconditional basic income: guaranteed, meaningful compensated work opportunities.

    Means: a jobless person who searches compensated work is guaranteed to get an opportunity of working for the common good, esp. including distributed benefits like open content. If necessary, state creates this on demand. There should be an option to go for self-proposed opportunities, too.

    Not only does a society save on welfare that goes without returns to the society. It also means that people working harmful commercial jobs can quit and still feed themselves. So if real estate speculators and others don’t find any employees for their private capitalist interest any more, may it be so 😀

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    1. Alberto Autore articolo

      What can I say, Matthias? I agree. Hopefully some bold experimentator on welfare policy is reading us and becoming inspired by your suggestion.

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