Archivio della categoria: complexity economics

Lo Stato che impara: come integrare l’innovazione sociale nelle politiche mainstream

Faccio parte di un gruppo di lavoro al Consiglio d’Europa che si occupa di “Quality job creation through social links and social innovation” (l’espressione “social innovation” è un’aggiunta recente al nome del gruppo; di questa aggiunta credo di essere in parte responsabile). Uno dei problemi che ci stiamo ponendo è questo: stante che esiste un gruppo di persone interessanti, che chiamano se stessi innovatori sociali; stante che queste persone sembrano avere un potenziale per migliorare la società che abitano; stante che sembra si tratti di soggetti di nuovo tipo – che, quindi, richiedono politiche pubbliche di nuovo tipo, diverse da quelle per le imprese e per il mondo del non profit; stante tutto questo, ne consegue che alle autorità pubbliche si richiede di fare cose nuove, forse anche radicalmente nuove. Bene. Ma come imparano le istituzioni?

Mi sembra una domanda importante. Ho lavorato a progetti pilota pubblici apprezzati come innovativi (Kublai o Visioni Urbane, per esempio); la sfida che attende questi progetti è la trasformazione in metodi che fanno parte del normale arsenale con cui le autorità che li hanno varati affrontano il mondo. Con il sostegno del Consiglio d’Europa ho potuto affrontare il problema in modo strutturato. La mia conclusione provvisoria è che il modello prevalente di apprendimento per le autorità pubbliche è razionale-weberiano e completamente sbagliato. Funziona così:

  • Un problema nuovo viene avvertito dalla pubblica opinione
  • Politici in concorrenza tra loro per i voti degli elettori lo incorporano nelle loro piattaforme elettorali, insieme alle soluzioni che propongono
  • Una volta eletti, i rappresentanti del popolo legiferano in conseguenza delle loro piattaforme elettorali
  • La nuova legge si trasforma, in modo lineare, in policy, cioè in azione da parte del governo

Questo modello è elegante ma inutilizzabile. Richiederebbe (1) che politiche alternative (per esempio: carbone pulito vs. rinnovabile vs. nucleare per la politica energetica) potessero venire discusse in profondità e in modo razionale già nelle campagne elettorali; (2) che l’elettorato avesse modi efficaci di vincolare gli eletti alle loro promesse elettorali; (3) che la conversione di una legge in policy fosse “lineare” e non richiedesse interpretazione da parte dell’esecutivo; e (4) che le politiche fossero una strada a senso unico, cioè un fenomeno che influenza la società ma non ne viene a sua volta influenzato. Nessuno di questi requisiti è soddisfatto, nemmeno lontanamente.

E allora? Allora ha più senso abbandonare Weber e la metafora del meccanismo come strumento per capire l’azione di governo, e abbracciare invece, quella dell’ecosistema. Propongo di considerare le autorità pubbliche come sistemi adattivi complessi che coevolvono con la società e l’economia. Insegnare loro ad avere a che fare con l’innovazione sociale – o qualunque cosa nuova, al di fuori della loro esperienza – significa cercare di aiutarle a pensare gli agenti economici e sociali come mossi dalle forze dell’evoluzione, che naturalmente premiano il più adatto. La policy, in questo contesto, diventa l’atto di strutturare un fitness landscape che porti gli agenti ad incamminarsi verso il risultato auspicato. Invece di preterminare i propri esiti top-down, essa abilita e incentiva gli agenti a fornirle input. Questo ha precise conseguenze sulla progettazione dell’azione di governo in pratica. Una di queste è che un’architettura costituzionale che abilita l’apprendimento dal basso (come la Common law) è intrinsecamente superiore a una che non lo fa.

Se ti interessa l’argomento puoi leggere il paper (in inglese): il Consiglio d’Europa mi ha autorizzato a condividerlo. Grazie a Gilda Farrell e Fabio Ragonese per la gentile concessione.

Narrative dell’innovazione: i tarocchi tecnologici a Drumbeat

Secondo David Lane, a volte siamo chiamati a prendere decisioni in condizioni che lui chiama di incertezza ontologica. Si ha incertezza ontologica quando non si è assolutamente di grado di fare un quadro esaustivo della situazione, e di arrivare a rappresentarsi la gamma delle scelte possibili e delle loro conseguenze per noi. In un articolo famoso, ci invita a considerare la situazione di un diplomatico bosniaco all’inizio del settembre 1995, che tenta di fermare il massacro che sta avvenendo nel suo paese.

È molto difficile decidere chi sono gli amici e chi i nemici. Prima combatte contro i croati, poi al loro fianco. Il suo esercito affronta un esercito composto da serbi bosniaci, ma suo cugino e altri musulmani dissidenti combattono al fianco di quest’ultimo. Cosa puà aspettarsi dalle forze di sicurezza dell’ONU, dai bombardieri NATO, dai politici occidentali, da Belgrado e Zagabria, da Mosca? Chi sono gli attori importanti, e cosa vogliono? Su chi può contare, e per cosa? Non lo sa – e quando crede di saperlo, la situazione cambia di nuovo.

Come decidere in queste situazioni? Risposta: raccontandosi storie. Gli umani sono bravi con le storie: se ti riconosci nell’eroe di una storia, sarà lui a ispirare le tue azioni, proprio come Don Chisciotte cambia la sua vita per rimodellarla sui modelli dell’epica cavalleresca medievale.

L’innovazione accade spesso in condizioni di incertezza ontologica. Si può avere un obiettivo in termini di produzione di un artefatto, ma il sistema di mercato – che dipende dall’uso che le persone decideranno di fare di quell’artefatto – è sempre emergente. La stampa a caratteri mobili è stata un progetto di ricerca e sviluppo, ma Gutenberg non aveva certo previsto l’umanesimo e il mercato dei libri tascabili di Aldo Manuzio; Henry Ford ha razionalizzato la produzione dell’automobile, ma non poteva prevedere i quartieri dormitorio per pendolari che la civiltà dell’automobile ha reso possibile. Realizzare e portare al mercato un’innovazione significa agire in un contesto mutevole, come quello in cui si muove il diplomatico bosniaco dell’esempio. E per farlo occorre raccontarsi storie.

Nadia El-Imam ha avuto l’idea di aiutare le persone a raccontare storie su se stessi e il loro rapporto con la tecnologia e l’innovazione usando degli speciali tarocchi da lei inventati (invece che la Torre e la Papessa, rappresentano il Server, il Programmatore, l’Interfaccia e così via). Vestita da cartomante zingara, si è offerta di leggere il futuro dei geeks che affollavano il Drumbeat, evento organizzato a Barcellona da Mozilla Foundation. Il risultato è stato un successo straordinario, con le persone in coda ad aspettare il loro turno di interrogare le carte. Tra di loro, l’imprenditore e venture capitalist Joi Ito (che si vede nel video). Attraverso l’interrogazione delle carte, gli innovatori riprendono il filo di ciò che stanno facendo e cercano una via per proseguire il loro viaggio.

A loro modo, i “tarocchi tecnologici” di Nadia sono una piattaforma, utilizzabile come strumento di ricerca etnografico, veicolo per il counseling aziendale e chissà quante altre cose. Sono curioso di vedere come evolve.

La scuola è finita

In North Carolina un bambino su venti non va mai a scuola: viene istruito a casa. Gli americani lo chiamano “home schooling”. Secondo lo studioso Brian Ray, i bambini in questa situazione negli USA sono passati da circa 12.000 a oltre due milioni in 25 anni. La cosa è diventata socialmente molto più accettabile.

Non credo sia un caso. La scuola serve a fare tre cose: istruire i bambini; socializzarli alla vita in comune; parcheggiarli intanto che mamma e papà vanno al lavoro. Questi tre ruoli sono molto importanti, ma non mi è affatto chiaro che debbano essere svolti dalla stessa istituzione. In particolare da questa istituzione.

Dal lato istruzione, la scuola è progettata per preparare i giovani a prendere posto in un’economia che non c’è più, quella industriale e tayloristica novecentesca. Come dice sir Ken Robinson nel video qui sopra, è organizzata come una fabbrica o una caserma, con campanelle che segnano gli orari, dipartimenti separati (scienze vs. discipline umanistiche), e produce “lotti” di diplomati nel modo più standardizzato possibile. La didattica è figlia dell’organizzazione e non, come dovrebbe essere, viceversa: i nostri figli fanno l’ora di matematica, per esempio, perché l’insegnante entra in classe, saluta, appende il cappotto, apre il registro etc., e così se ne vanno cinque-dieci minuti. Ma l’unità naturale per l’apprendimento della matematica è il teorema, o la derivazione della formula, non l’ora. E in effetti, le (bellissime!) lezioni della Khan Academy – uno dei progetti “world changing” finanziati da Google – durano dai sei ai quindici minuti, con qualche eccezione, e si prendono tutto il tempo di spiegare bene le cose, passaggio per passaggio. Ma c’è di peggio: la scuola ti insegna che la risposta giusta a qualunque problema è solo una: sta alla fine del libro, nelle soluzioni agli esercizi – il che è evidentemente falso. E che non si deve copiare, perché questo vuol dire barare. Ah sì? Lavorare insieme su un problema, fuori dalla scuola, si chiama collaborazione: è il motore della nostra economia, della scienza, di tutto.

Mi pare chiaro che la scuola non svolge molto bene il compito di preparare i giovani alla loro vita professionale. Internet è un candidato più credibile: perché dovrei sciropparmi un insegnante mediocre e demotivato in un istituto di provincia quando ho la Khan Academy e i TED Talks? Tutti possiamo avere i migliori insegnanti del mondo. Possiamo interagire con una classe grande quanto il pianeta, in cui non importa quanti anni abbiamo e ciascuno fa progressi al proprio passo naturale, esplorando infinite combinazioni tra teoria e pratica. E non mi si dica che i bambini non imparano se non li costringi. I bambini sono naturalmente curiosi e desiderosi di imparare, dicono tutti i pedagoghi e gli psicologi cognitivi. La scuola riesce spesso a uccidere questo istinto, e già basterebbe questo per indurci a metterla seriamente in discussione.

Quanto al socializzare i bambini, la scuola fa un ottimo lavoro: insegna loro a non alzare la voce, arrivare in orario e così via. Di nuovo, però, la società a cui li si prepara è una società ottocentesca e gerarchica: i suoi valori sono l’obbedienza, la prevedibilità, la conformità allo standard. Per alcuni funziona bene, ma altri imparano l’ipocrisia, la codardia, il conformismo e l’opportunismo che poi, negli adulti, genera il meraviglioso mondo di Dilbert. Non sono un esperto, ma scommetterei che un veicolo migliore per la socializzazione è il rugby, ovviamente quello giocato. Ti insegna il duro lavoro, il senso di squadra, l’idea che tutti sono diversi e contribuiscono in modo diverso al successo comune, la passione per quello che fai, la correttezza. Con il terzo tempo, ti insegna la differenza tra avversari e nemici. E in più fa anche bene alla salute.

Al di là di istruzione e socializzazione, per la scuola resta ancora un ruolo fondamentale: il parcheggio per i figli. Di parcheggi c’è molto bisogno; probabilmente è questo il ruolo che rende alla maggior parte dei genitori un mondo senza scuola semplicemente inimmaginabile, e quindi ci rende più difficile riformare l’istruzione. Se questo è il core business, però, temo però che il futuro della scuola sia buio. Man mano che i genitori benestanti si renderanno conto che la scuola di oggi riduce le possibilità dei loro rampolli di avere successo nella vita, la diserteranno (come, appunto, succede negli USA); e siccome non usufruiranno del servizio, saranno molto restii a pagare le tasse per un servizio pubblico che non usano. Ci sarà una pressione sempre più forte a favore di soluzioni educative personalizzate e erogate dal settore privato, e le scuole pubbliche saranno sempre più trincerate nel ruolo di parcheggi per i figli dei poveri, sempre peggio finanziate, ridotte a toppa del sistema educativo. Non che io auspichi una soluzione del genere: se chiedete a me, io proporrei una riforma radicale dell’istruzione pensata per la società connessa. Ma quello che voi e io pensiamo non conta molto: come diceva John Brockman al Festival della scienza, le cose davvero importanti (la civiltà dell’automobile, la globalizzazione, il riscaldamento globale) non sono oggetto di scelta collettiva. Sono emergenti, e tutto quello che possiamo fare è adattarci per quanto siamo capaci.

Hat tip: Andrew Missingham

UPDATE – Bella coincidenza. I partecipanti alla sessione su “Il futuro dell’istruzione” a Mozilla Drumbeat 2010 (finito sabato) hanno prodotto questo video, in cui si dicono cose simili a quelle del mio post. Non perdetevi l’intervento secco di Massimo Banzi. (Hat tip: Nadia El-Imam)