Archivio della categoria: innovazione sociale

Photo: Jose Luis Mieza on flickr.com

Cosa gli innovatori sociali possono imparare dalla vita e l’opera di san Benedetto

Circa un anno fa alcune persone vicine a Edgeryders e a me si sono inventate una cosa chiamata unMonastery. L’idea si è sviluppata nel prototipo di un progetto davvero radicale: più o meno costruire un’istituzione per annidare competenze globali in una comunità locale e aggredirne i problemi sociali, e farlo in modo che duri almeno un paio di secoli. La sostenibilità del progetto non è affidata a un modello di business (improbabile che un modello di business possa durare così tanto), ma a una specie di simbiosi tra l’unMonastery e la città che lo ospita. Incredibilmente, quest’idea è divenuta realtà: puoi diventare  unMonasterian anche subito.

Questo viaggio mi ha portato a esplorare le origini del monachesimo in occidente alla ricerca di storie interessanti e ispirazione – anche i non credenti possono ispirarsi alle vite dei santi! Mi sono concentrato su San Benedetto, considerato da molti come il fondatore del monachesimo occidentale. In effetti, la sua vita e i suoi tempi sono una miniera di buoni consigli per chiunque voglia fondare un unMonastery (e forse anche un hackerspace). Basta uno sguardo per capire che:

  1. Benedetto ha un metodo evidence-based. Fa esperimenti e ne accetta i risultati. Non è arroccato nelle proprie convinzioni, e sembra lontanissimo da uno stile burocratico in ciò che oggi chiameremmo management: al contrario il suo stile di leadership è adattivo. Secondo san Gregorio, prima prova a vivere in una grotta, da eremita; poi accetta di diventare l’abate di un monastero vicino, ma senza successo (“l’esperimento fallì: i monaci tentarono di avvelenarlo” – fonte). Più tardi fonda il suo primo monastero a Subiaco, frammentando la comunità di monaci in dodici mini-monasteri indipendenti con dodici monaci ciascuno; ancora più tardi, organizza il monastero di Monte Cassino su principi completamente diversi, con tutti i monaci sotto lo stesso tetto. Gli unMonasterians moderni, e gli innovatori sociali in genere, hanno molto da imparare dalla sua euristica prova-fallisci-correggi-riprova.
  2. Benedetto valorizza e dà priorità all’azione sulle dispute sterili. Ora et labora, prega e lavora, è il suo precetto. Il lavoro è, per lui, il solo sentiero che conduca a una vita buona e ricca di senso; qualunque altra strada è interrotta da tentazione e irrequietudine. Quando i suoi seguaci si trovano nel dubbio, vengono forniti di attrezzi, gli viene mostrato un prato da falciare o un albero da abbattere e gli viene detto di darsi da fare. La gente capace e solida non si mette in cammino per Cambiare Il Mondo: sarebbe una posizione arrogante, certamente ispirata dal diavolo (sto guardando te, Silicon Valley). Dio può abbattere l’opera dell’uomo in qualunque momento, colpendo il pianeta Terra con una cometa o qualcosa del genere; la squadra di Benedetto lo sa, e quindi lavora per il piacere e il significato intrinseco di costruire cose buone, belle e intelligenti. Questa strategia, al capo di vari secoli, ha finito per dare ai benedettini (e al mondo occidentale) una rete globale di monasteri come centri di produzione, guarigione, sapienza e ospitalità; i monaci sono arrivati ad essere concepiti come l’incarnazione dell’ideale cristiano. Oggi, unMonasterians e innovatori sociali lavorano non perché credano davvero che il loro lavoro possa ricacciare indietro l’apocalisse, ma perché è la cosa giusta da fare. E non si sa mai, potremmo perfino vincere.
  3. Benedetto costruisce protocolli. Durante la permanenza a Monte Cassino scrive la Regola, un manuale utente per le persone che vogliono vivere insieme in un monastero. La Regola è un documento straordinario, che gli unMonasterians (soprattutto quelli che fondano nuovi insediamenti) farebbero bene a studiare a fondo. Se hai qualche esperienza con le comunità online, troverai la Regola stranamente familiare: ha ruoli con livelli diversi di accesso e autorizzazione (abate, cellario, confratello); una moderation policy per prevenire conflitti che potrebbero distrarre i monaci dal compiere il lavoro di Dio (e il loro); un’idea molto moderna dei vertici della gerarchia come servizio alla base dei monaci ordinari, e non come loro colonnelli. La cosa più importante è che la Regola non specifica obiettivi e le attività che servono per conseguirli: non dice mai “costruite una biblioteca e uno scriptorium e cominciate a copiare manoscritti, in modo da conservare il sapere quando l’Impero Romano crollerà”, o “costruite spazio extra per ospitare i viandanti, visto che l’Alto Medio Evo non ha abbastanza locande”. Eppure, i monasteri benedettini hanno finito per fare quelle cose e altre ancora: seguire la Regola può risultare in molte attività, tutte benefiche dal punto di vista di Benedetto e del suo gruppo. Per la maggior parte, queste sarebbero state del tutto impossibili da prevedere per Benedetto stesso. Ma questo si spiega: poiché è un documento di istruzioni da eseguire, la Regola è software; poiché non svolge un compito specifico, ma abilita un insieme di esiti coerenti gli uni con gli altri, non è un’app. La Regola è un protocollo. E quale protocollo! Si è diffuso su tutto il mondo conosciuto; ha trasformato l’Europa medievale (e si può sostenere che l’abbia cambiata in meglio); è ancora in uso dopo quindici secoli; e si è diffusa oltre la chiesa cattolica (viene usata anche in contesti ortodossi e perfino luterani). Non mi vengono in mente molti altri protocolli che abbiano ottenutio questi risultati. Benedetto è un candidato forte per il titolo di Ninja Protocol Hacker Supremo di tutti i tempi.
  4. Benedetto decentralizza. Coerentemente con la natura di protocollo della Regola (e probabilmente della sua mentalità da hacker esperto in protocolli), Benedetto non fonda un ordine. I benedettini non sono un ordine in senso stretto: ciascun monastero è un’istituzione sovrana, senza una gerarchia a collegarlo agli altri monasteri. La Regola funziona come un protocollo di comunicazione tra un monastero e l’altro. Risultato: molti tipi di abbazia benedettina sono evoluti nel corso dei secoli (per esempio i Camaldolesi) per mutazione e selezione naturale. Questo è esplicitamente abilitato dalla Regola, che si dichiara “solo un inizio” nel suo capitolo finale, più o meno come TCP/IP è “solo un inizio” per applicazioni come lo streaming video. La mutazione non è sempre arrivata alla speciazione, e la maggior parte delle abbazie benedettine si sono federate in modo abbastanza lasco in congregazioni nazionali o sovranazionali a partire dall’inizio del XIV secolo; per questo, Papa Leone XIII è stato in grado di montare una Confederazione benedettina presieduta da un Abate Generale senza che le differenze tra monasteri risultassero imgestibili. Questo succede nel 1893 – oltre milletrecento anni dopo la scrittura della Regola!
  5. Benedetto evita i conflitti sterili – e così diventa virale. La mia ricerca su questo è stata dilettantistica – letteralmente il lavoro di un giorno – ma non sono riuscito a trovare tracce di lotte di potere tra il nascente movimento monastico del sesto secolo e la gerarchia ecclesiastica. Invece di scendere nell’arena della politica vaticana, Benedetto sembra concentrarsi nel fare funzionare Monte Cassino e distribuire copie della Regola a chiunque ne volesse una. Risultato: sempre più persone adottano la Regola per i propri progetti di impiantare monasteri. In questo modo, nessuno doveva perdere tempo a negoziare chi sarebbe entrato nell’ordine di chi, chi sarebbe stato Abate Generale e chi abate semplice e roba del genere. La Regola era (ed è ancora) ottimo, solido software open source. La gente ne “scaricava” una copia da Monte Cassino o da un altro monastero che ne avesse il manoscritto e la usava come credeva. La gente che la usava aveva più probabilità di successo nel fondare e gestire un monastero della gente che non la usava; e così, al tempo di Carlo Magno, l’intera Europa era infrastrutturata da monasteri di successo basati sulla Regola. Al contrario di ciò che accade, per esempio, con i francescani, non c’è bisogno di fare politica per ottenere che la gerarchia vaticana accetti il nuovo movimento. Anzi, Papa Gregorio I Magno (ottiene la promozione nel 590, appena 50 anni dopo la morte di Benedetto) viene egli stesso da un’esperienza di monaco, e sostiene senza reticenze il monachesimo (spesso è chiamato il co-fondatore del monachesimo occidentale). Questo pattern di adozione dovrebbe suonare familiare ai fondatori di progetti open source più vicini a noi, come Linus Torvalds (di Linux) e Jimmy Wales (di Wikipedia).

Sì, c’è qualcosa nello studio deelle vite dei santi, dopo tutto. Gli unMonasterians (e non solo) farebbero bene a dedicare una congrua quantità di tempo a studiare l’approccio benedettino come protocollo per avere impatto nell’innovazione sociale. Questo significa studiare almeno tre cose: il software, cioè la Regola; l’hardware, cioè l’organizzazione dello spazio fisico nei monasteri (per esempio, le celle singole per i monaci sono una parte del protocollo che governa la vita monastica che è incorporata in mura di pietra anziché nella Regola), e la storia di come hardware e software hanno interagito per guidare il percorso del movmento monastico. Per secoli, la chiesa ha avuto la sua agiografia (letteratura sulle vite dei santi) come guida per l’ispirazione, e può essere che anche i non-monaci trovino guida e conforto nella loro non-agiografia. Sono curioso di esplorare questo percorso, e capire dove porta.

Gli agenti di sviluppo dove meno te li aspetti

La Grecia della crisi, a quanto pare, è una fucina di innovazione: sarà che molte obiezioni a mosse radicali e audaci tendono a indebolirsi quando si capisce che business as usual non è tra le alternative disponibili. Perka, a Thessaloniki, riunisce 200 persone che praticano l’agricoltura urbana in una base militare abbandonata. Anosi, a Volos, ha montato un ingegnoso sistema “intermediari zero” per la distribuzione di prodotti alimentari; Spithari costruisce una comunità semi-autosufficiente “in mezzo al nulla”. E sono solo alcuni esempi.

Io queste cose le so perché le ha scoperte il mio amico Petros di FreeLab (potete vederlo nel video sopra). Nella prima fase di un progetto chiamato Expedition Freedom, ha setacciato la Grecia continentale in cerca di storie interessanti, conosciuto le persone al centro di questi progetti, e le ha convinte a condividere la loro esperienza per il bene di tutti. Questo è un risultato di tutto rispetto: denota un metodo efficace nella ricerca e buone abilità diplomatiche nel conquistare la fiducia di queste persone (alcuni greci non si sentono troppo ben disposti nei confronti di ricercatori europei, comprensibilmente). Il tutto è ancora più impressionante si si pensa che Petros non è greco e non parla greco.

Probabilmente ti sei fatto l’idea che Petros sia un brillante economista dello sviluppo. E lo è, nei fatti – Expedition Freedom è un signor progetto di sviluppo, almeno tanto quanto il “mio” OpenPompei. Ma non lavora per un governo, un’organizzazione intergovernativa come la Banca Mondiale, o una grande ONG. È un ex piccolo imprenditore informatico; quando la sua impresa è fallita e si è trovato senza nulla, ha deciso di diventare “un contributore sociale a tempo pieno – viandante, anarcopositivista, scrittore politico e attivista senza fissa dimora”. Con le sue modeste risorse, ha messo in piedi la fase di ricognizione di Expedition Freedom, facendo l’autostop per oltre mille chilometri attraverso il Peloponneso. Ha raccolto un po’ di denaro – pochissimo – per le cose che non poteva sostituire con il proprio tempo e il proprio lavoro – la comunità di Edgeryders e io stesso gli abbiamo dato un piccolo aiuto, comprando alcuni oggetti in una lista della spesa che aveva fatto. L’oggetto più costoso era il biglietto del bus dalla Grecia fino al ritorno in Polonia, 100 euro.

E quindi? Da diversi anni esploro le frontiere dell’economia, affascinato dall’ingegnosità umana ai margini. Mi sono convinto che gli hackers, gli attivisti, gli appassionati del fai-da-te siano una vera forza di sviluppo – forse l’unica forza fresca che possiamo ancora mettere in campo, dopo decenni di fallimenti e stagnazione. Se pensi alla società come a un ecosistema che cresce per variazione e selezione, queste persone sono il motore della variazione: costruiscono e liberano nel mondo strani oggetti come il software open source, i diritti di proprietà intellettuale attenutati, le stampanti 3D, le valute garantite da algoritmi criptografici. Come specie pioniere, molte di queste innovazioni si estingueranno. Ma altre colonizzeranno l’economia, e daranno forma al mondo in cui abiteremo domani. Ogni governo che si rispetti dovrebbe provare a dialogare con loro; eppure, questi innovatori radicali sembrano vivere in un punto cieco, invisibile a praticamente tutti i funzionari pubblici ed esperti accademici con cui io abbia mai parlato. Petros, invece, sa bene che queste persone sono importanti. Sa dove trovarle, e come ingaggiarle in dialogo.

Non c’è dubbio: Expedition Freedom è una politica pubblica, tranne per il fatto che viene da una direzione inaspettata. È orientata al bene di tutti (distillare e mettere in circolazione la conoscenza pratica per permettere all’innovazione dal basso di prosperare); ha un meccanismo chiaramente articolato per dispiegare i suoi effetti (seminare la società con il maggior numero di gruppi robusti di innovatori possibile, e metterli in condizione di confrontare le rispettive prassi per accelerare l’adozione delle cose che funzionano); usa strumenti classici delle politiche pubbliche (ricerca, messa in rete e diplomazia). Ed è di vari ordini di grandezza più efficiente di qualunque cosa abbia mai visto nel settore pubblico o nel privato corporate. Qualunque progetto governativo, anche ben finanziato, si affretterebbe a dichiarare il proprio successo anche solo con i risultati che Petros ha già ottenuto. In realtà – anche se io stesso ho, in alcuni ambienti, una discreta reputazione per questo tipo di lavoro – i suoi risultati a risorse quasi nulle mi fanno arrossire, e mi spingono a cercare di fare meglio.

La morale di questa storia: le politiche di sviluppo, tradizionalmente un’esclusiva di governi e grandi ONG, possono ora essere fatte d individui in rete – e con un grado di efficienza senza precedenti. Se il settore pubblico e quello corporate vogliono dare un vero contributo, devono mettere in campo persone come Petros; non distogliendole da ciò che stanno facendo, ma aiutandole a farlo, prestando loro la legittimazione dello stato (e magari un po’ di risorse materiali). Dal punto di vista dello stato, è un po’ come usare una canna da pesca: spessa e rigida al manico, dove burocrazie weberiane classiche interagiscono con ministri e responsabili politici; sottili e flessibili alla fine, dove gente come Petros discute con gli hackers e gli innovatori che cercano di mettere insieme un modello economico e sociale plausibile in un paese colpito da una crisi molto dura. La sezione intermedia della canna da pesca fa in modo che la policy in questione abbia la necessaria flessibilità alla fine, rimanendo rigidamente in asse con il quadro normativo al manico. Petros può sembrare un emissario incongruo per un stato (lui sarebbe il primo a vederla così) ma ehi: come dovrebbe essere fatto un emissario congruo? Non siamo più una società di massa, quindi gli strumenti della società di massa (come le burocrazie classiche) non sempre risolvono i problemi. Meglio abituarsi

Petros sta raccogliendo fondi per la seconda fase di Expedition Freedom.

OpenPompei: cultura della trasparenza ed economia hacker per crescere in contesti difficili

Veduta di PompeiHo un nuovo incarico. Dirigerò un nuovo progetto che si chiama OpenPompei. Si tratta di un’iniziativa di Studiare Sviluppo, società in-house del Ministero dell’Economia; si inserisce nella strategia varata dal governo italiano e che interessa la Campania, e in particolare l’area di Pompei.

Il retroterra è questo: a fine 2011 il governo si convince che la battaglia per la civiltà nel Mezzogiorno si vince o perde a Pompei, che di questa battaglia è un luogo-simbolo. In tempi molto rapidi, i ministri dei beni culturali, dell’interno e della coesione territoriale montano un progetto da oltre cento milioni di euro per il recupero dei manufatti che, nel parco archeologico, erano stati danneggiati (i reperti archeologici a cielo aperto hanno bisogno di manutenzione); se lo fanno approvare dalla Commissione Europea; lo blindano con un modello di sicurezza molto avanzato che vigila che il denaro degli appalti non vada a imprese colluse con la criminalità organizzata. Nasce così il Grande Progetto Pompei.

Molto a lato di questo intervento “in forze”, il governo decide, nel 2102, di mettere in pista una piccola iniziativa di trasparenza, indagine e animazione territoriale. L’idea è del ministro Barca, e si vede: visto che si fa spesa pubblica sulla cultura in Campania e la si protegge contro infiltrazioni  criminali, vale la pena di fare un passo in più, e pubblicare i dati di spesa del Grande Progetto Pompei in formato aperto. Non è sufficiente, infatti, che la spesa pubblica sia legalmente ineccepibile: deve essere anche efficace ed efficiente. Accessibilità dei dati e discussione pubblica possono scoprire errori, suggerire miglioramenti, tenere viva l’attenzione delle amministrazioni e spingerle a fare sempre meglio.

Da questa intuizione nasce OpenPompei. Il suo mandato è volutamente ampio, fino a comprendere:

  • la promozione di una cultura di trasparenza e di dati aperti di un’area vasta, di cui Pompei è il centro simbolico. L’idea è avere una piccola squadra in grado di fornire un po’ di assistenza se un’amministrazione del mezzogiorno chiede aiuto per incamminarsi su un sentiero di apertura dei dati. Si partirà, naturalmente, dalla La Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei e dai dati del Grande Progetto.
  • una ricognizione dell’economia “hacker” del territorio. Come tutti i posti densamente popolati, la Campania è piena di co-working, nuove imprese digitali, attivisti, economia solidale, innovazione sociale, sharing economy. Come dappertutto, queste iniziative sono spesso fragili e disconnesse, ma hanno un’idea forte di futuro. L’ambizione è incontrarli, capire qualcosa di più dei loro sogni e delle loro difficoltà, se possibile aiutarli a fare sentire la loro voce nel dibattito pubblico’, senza la pretesa di risolvere tutti i problemi.

Il sogno dietro OpenPompei è di costruire un’alleanza tra civic hackers, impresa sana e Stato per tenere alta l’attenzione sulla spesa pubblica e combattere la corruzione. Non sarà un piccolo progetto a realizzare un obiettivo così alto, ma speriamo di potere dare un contributo, almeno di conoscenza.

Per garantirne l’indipendenza, OpenPompei è strutturato come progetto della Commissione Europea, e affidato a Studiare Sviluppo, società in-house del ministero dell’economia. Ho già lavorato per loro ai tempi di Visioni Urbane e di Kublai. Auguratemi in bocca al lupo, e statemi vicini, ok?