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La musica indie è freemium, quella pop è advertising based

clikthrough

Il video di Breakeven, della band irlandese The Script, è interattivo. “Interattivo”, in questo contesto, vuol dire che se ci clicchi sopra si apre una finestra con la foto e la descrizione della giacca indossata dal cantante, o del suo cellulare, o dell’auto che guida nel video. Un altro clic permette di accedere allo store online. La tecnologia consiste in un player realizzato dall’azienda californiana Clikthrough. La riproduzione è un po’ a scatti sul mio Mac; i prodotti sono 40, uno ogni sei secondi. La maggior parte di essi compare in molte scene del video, per cui se lasciate il puntatore del mouse appoggiato alla finestra in cui scorre il video, l’etichetta che annuncia il prodotto cambia due/tre volte al secondo: direi che è davvero l’ultima frontiera del product placement. Secondo il Times, Clikthrough sta ora producendo il video di Natasha Bedingfield con la stessa tecnologia.

A parte considerazioni di user experience, mi pare interessante che il modello di business della musica pop si stia separando da quello della musica indipendente, o alternativa.

0. Fino alla fine degli anni 90 il gioco era vendere dischi e biglietti di concerti, promuovendo la musica attraverso radio, TV, riviste e altri media. Erano diversi i media (e spesso anche i venues per i concerti, e  i negozi di dischi), ma il modello era lo stesso, da Sanremo agli artisti RoughTrade. Oggi lo chiameremmo un modello paid content. Dalla “tempesta digitale” degli anni 2000, però, mi pare che stiano emergendo due strategie nettamente diverse.

1. Gli artisti indipendenti rafforzano i loro legami con le communities dei loro fans. Questo implica non tentare di fermare il download illegale (cosa che, del resto, è impossibile), ma piuttosto costruirsi un modello freemium in cui una forte minoranza di fans paganti tiene in piedi tutto il sistema, e il rapporto di simbiosi tra artista e fans è forte e molto esplicito. Si parla di Creative Commons, si parla di “make your own price”, di edizioni superlusso; credo che i recenti episodi Radiohead e Nine Inch Nails si possano leggere in questo modo.

2. Gli artisti pop come The Script e Bedingfield sembrano invece puntare su un modello advertising based. E’ tutto un fiorire di Cornetto Free Music Festival e di video cliccabili: l’idea è che la musica sia una specie di gadget; i ricavi vengono dalla vendita dei jeans o dei cellulari.

I modelli non sono solo diversi: sono incompatibili. La retorica del modello freemium, infatti, dice al fan: senza il tuo attivo contributo i Nine Inch Nails non esisterebbero. Trent Reznor non può mettersi a vendere scarpe o auto senza in qualche modo tradire il patto che ha con la sua community. Sembra di assistere all’equivalente economico di quello che in biologia è una speciazione, cioè alla separazione di una nuova specie da una esistente. Mi chiedo se, nella nuova situazione, il gioco di spostare nuovi fermenti dall’alternativa al mainstream, che l’industria musicale ha praticato con successo per oltre sessant’anni, possa ancora riuscire.

Questione di punti di vista

Distratto da tutt’altro, non ho ancora commentato il caso Nine Inch Nails – Ghosts I-IV. Per chi come me si fosse distratto, la storia è più o meno questa: Trent Reznor completa il suo contratto discografico con Interscope Records, decide di non rinnovarlo, e pubblica queste 36 tracce strumentali di “dark ambient” (!) con una propria etichetta. Decide di licenziarle in Creative Commons (attribuzione, non-commerciale, condividi allo stesso modo). Questo significa che:

  1. è legale scaricare “Ghosts” da Bit-Torrent o e-Mule
  2. è legale copiare il cd e distribuirlo in giro

L’album può essere ottenuto anche in molti altri modi, dal download a pagamento all’edizione limitata “Ultra-Deluxe” a 300 dollari al pezzo (2500 copie, esaurite in tre giorni secondo Arstechnica). I risultati sono stati notevolissimi: 1,6 milioni di dollari di ricavi generati nella prima settimana (fonte: Wired); album più scaricato (a pagamento) da Amazon; primo posto nella classifica Billboard nella musica elettronica e piazzamenti molto lusinghieri in altre categorie (compreso un 14° posto assoluto); 4° album più ascoltato nel 2008 su Last.fm, con oltre cinque milioni di ascolti.

Chris Anderson, che sta scrivendo un libro su “The economics of free”, commenta che “Un album gratuito è stato il più venduto come MP3!”. Ha ragione.

Joi Ito, impegnato su Creative Commons, fa notare che “Un album licenziato in CC è stato il più venduto come MP3!”. Anche lui ha ragione.

Ma perché la gente comprerebbe musica che può facilmente ottenere gratis? Il blog di CC: “I fans hanno capito che comprare gli MP3 avrebbe direttamente sostenuto la vita e la carriera di un artista che amano (traduzione mia)”. E, secondo me, lui ha più ragione di tutti. Nel mio piccolissimo, sostengo da un pezzo (per esempio in un articolo del 2001 su “Diario”) che i musicisti “vivono di mance”, cioè di un rapporto forte con la propria fan base, e che è su questo rapporto che occore costruire un modello di business per l’era digitale. Il diritto d’autore inteso nel senso classico è diventato un ostacolo all’innovazione sui modelli di business, e va superato (ne ho parlato nel 2007 a eChallenges e in altre sedi). Su queste cose mi scontro da allora (abbastanza affettuosamente) con ciò che resta della discografia tradizionale.

E anch’io avevo ragione, pare. 😉

 

Consumatore sarà lei (Il CEO di EMI Music perde il Cluetrain)

Beh, in fondo un po’ patrioti lo siamo tutti, o lo saremmo se ce lo potessimo permettere, quindi fa piacere trovare un italiano, il 42enne Elio Leoni-Sceti, a fare il CEO di EMI. Gino Castaldo, che da molti anni si occupa di musica per Repubblica, lo ha intervistato per Affari e Finanza e ce ne racconta la strategia per assicurare alla musica magnifiche sorti e progressive. Ne risulta un articolo che fa un po’ impressione. Per due motivi.

Il primo è il meno importante, ma resta un po’ spiacevole. Castaldo si accosta alla sua notizia nella migliore tradizione “in ginocchio da te”. “I conti mostrano sensibili miglioramenti. C’è addirittura voglia di rilanciare […]. Merito di un brillante romano, Elio Leoni-Sceti […]”. Però, uno pensa, bravo questo. Poi gli viene il dubbio e si controlla il Times, da cui salta fuori che il 27 giugno EMI stava “prendendo in considerazione” l’assunzione di Leoni-Sceti. Per quanto possa essere bravo e veloce, i risultati del terzo trimestre difficilmente possono essergli attribuiti integralmente. Peccato: figura non bellissima, che getta un’ombra su tutto il resto dell’articolo.

Il secondo, ben più rilevante, è il contenuto delle dichiarazioni del manager italiano. Leoni-Sceti sembra del tutto impermeabile ai tremendi colpi presi dall’industria musicale negli ultimi sette anni. A leggere l’intervista viene il dubbio che la ragione sia che non sa assolutamente nulla; certamente non sembra averne tratto alcuna lezione significativa. Infatti sostiene  alcune posizioni che davvero pensavo fossero superate definitivamente dagli eventi. Eccole:

1. E’ stato un errore lasciare che l’innovazione tecnologica avvenisse al di fuori dell’industria “Tutto […] i cd, gli iPod e altro, è stato gestito da altri. […] Non si capisce perché dobbiamo lasciare ad altri qualcosa che noi facciamo da anni.” Ehm… Leoni-Sceti, le dice niente il nome Napster? Si ricorda? Quella che era allora la più grande community online della storia con 60 milioni di utenti registrati, creata da uno studente di liceo. E che, puntualmente, si disintegrò circa cinque minuti dopo che l’aveva comprata BMG, cioè la discografia major: gente che non capisce internet e che tendenzialmente la odia. E PressPlay, le dice niente? I suoi colleghi litigarono per anni su formati, interoperabilità, DRM, chi doveva gestire il negozio online etc. Poi arrivò Steve Jobs, uno che capisce internet e la generazione che ci vive dentro. Il resto è storia. Le majors del disco non sono assolutamente in grado di fare innovazione. Le majors vivono (con qualche ragione) l’innovazione come la cacciata dall’Eden. Sono gli ultimi luddisti.

2. Vogliamo ispirarci al consumatore. “Se scopriamo che per il merchandising il fan dei Coldplay spende cinque dollari e quello degli Iron Maiden venti questa informazione può essere elaborata per capire in quale direzione muoversi.” Eccerto, noi siamo consumatori, quindi telecomandabili a forza di MTV e di Sorrisi e Canzoni, quindi ci possono fare comprare i pupazzetti dei Coldplay. Leoni-Sceti, ma si rende conto che lei, manager di un’industria divenuta famosa negli ultimi anni per fare causa ai propri clienti, adesso li insulta sui giornali? Consumatore, scusi, sarà lei. Noi siamo altro: appassionati, smanettoni con chitarre e computer, a volte fruitori a volte artisti. Ha presente il movimento prosumer? World of Warcraft, gli hack sull’iPod, il passaggio epocale del settore della fotografia con l’avvento del digitale? Ha presente Rock Band? Ma sì, le cose che ha letto su The Long Tail e Wikinomics… il ClueTrain Manifesto? Neanche? Niente. Proprio non ci arrivano, le major, a capire che noi non vogliamo essere consumatori della loro musica ma protagonisti della nostra. Del resto, Leoni-Sceti ha maturato la sua idea di consumatore in Reckitt Benckiser (quella del Finish, il detersivo per lavastoviglie) e prima ancora in Procter&Gamble (quella del Dash, il detersivo per lavatrice). Quasi quasi uno si aspetta che annunci una campagna su Carosello.

3. E’ colpa della pirateria. “Ha portato uno scarso riconoscimento al valore del contenuto”. Maddai, ancora? Una prece. E un consiglio: confrontarsi con Joi Ito. Ma andrebbe bene anche un qualunque appassionato di musica. Il prossimo, per favore!