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Photo: Greg Goebel

La politica può essere collaborativa?

A Edgeryders studiamo e pratichiamo la collaborazione, soprattutto online. Progetto dopo progetto, troviamo che è la forza più potente che le persone con poche ricchezze e nessun potere, come noi, possa mettere in campo. Stiamo diventando bravi a collaborare. La prova: siamo un’azienda mutante senza una sede, senza investitori e senza business plan. Non abbiamo niente se non noi stessi – un minuscolo nucleo di fondatori, e la comunità di Edgeryders. Eppure siamo in campo. Alcune organizzazioni leader nel mondo sono nostri clienti. Cresciamo. Il 2016 è stato un buon anno per noi – ne scriveremo presto.

Il 2016 è stato anche un anno di incertezza e malcontento nella politica mondiale. Molte persone che abbiamo care sono tristi, arrabbiate o impaurite. Quasi nessuno sembra soddisfatto della politica e dei suoi leaders. Questo è vero sia nel campo dei perdenti che in quello dei vincitori. Questo contrasto ci meraviglia. La nostra cultura sta imparando a lavorare sempre meglio insieme nella diversità. Perché questo non si traduce in una politica più costruttiva?

Riflettendo su queste cose, ci siamo accorti che tendiamo a inquadrare la politica come combattimento. Ci sono attacchi, alleati, nemici. I suoi protagonisti si concentrano sul vincere. Questo è comprensibile ma inutile, eccetto forse in quanto intrattenimento. Cosa succede se abbandoniamo questo punto di vista e ne adottiamo uno collaborativo? Cosa succederebbe se un’entità politica fosse gestita come un progetto collaborativo? Se la produzione di leggi funzionasse come Wikipedia? Se le politiche pubbliche fossero implementate come una versione di Apache o Ubuntu?

Questo:

  1. Abilitare è la missione chiave. Uno stato, una città, una regione, esistono solo per abilitare le persone che ci vivono a fare quello che vogliono fare. Non hanno bisogno di avere una visione, perché le persone ne hanno già una loro.  Deve solo allargare al massimo lo spazio del possibile, per il numero più alto possibile di persone. In cambio, ottiene compliance e gettito fiscale. Questo sarebbe l’unico obiettivo della politica collaborativa. Confronta con i visionari politici, che cercano di venderti il loro modo di vedere le cose.
  2. Nel dubbio, non fare niente. Quando viene proposto un cambiamento importante, la comunità intorno a un progetto collaborativo lo discute. Queste discussioni possono essere lunghe. Poi, quasi sempre, il cambiamento non va avanti. Questo è perché, quali che siano i suoi difetti, il progetto nella sua forma attuale funziona. La sua prossima versione potrebbe migliorare molto, ma nessuno può garantire che funzionerebbe, o quanto ci vorrebbe per metterla a terra. Il cambiamento radicale richiede argomenti molto forti per andare avanti. Confronta con “devo fare qualcosa per lasciare un segno del mio mandato”.
  3. Concentrarsi sulle infrastrutture. I progetti collaborativi per il software non fanno programmi, ma componenti con cui le persone possono fare programmi. Il punto non è di decidere qual è il colore migliore per le pagine web, ma di scrivere codice che permette a tutti di scegliere facilmente qualunque colore per le loro pagine. Nel mondo delle politiche pubbliche, questo significa costruire infrastruttura, e l’infrastruttura è gerarchica. Più è generale, meglio è. Gli acquedotti sono meglio degli ospedali. Gli ospedali sono meglio dei centri culturali. I centri culturali sono meglio delle mostre. Confronta con i tanti progetti inutili degli amministratori (“Facciamo un incubatore per l’innovazione sociale fondata su blockchain”).
  4. Leaders NON carismatici. Le personalità narcisiste e appariscenti non funzionano bene nei progetti collaborativi. L’attenzione delle persone deve essere sul costruire, quindi chi cerca attenzione è un peso morto per gli altri. Le persone più in vista di queste comunità sono persone affidabili e spesso un po’ nerd, che non ti fanno perdere tempo. Confronta con un leader politico a scelta.
  5. Evita la controversia. Tutti i progetti open source di successo hanno molte proposte controverse per andare avanti. Ma ne hanno anche molte su cui tutti sono d’accordo. Le controversie fanno perdere tempo, quindi le persone realizzano per prime le proposte condivise. Questo crea fiducia reciproca, e potrebbe fare evolvere il progetto in una direzione in cui la controversia sparisce completamente. Confronta con la politica-come-combattimento.
  6. Do-ocracy, non rappresentazione degli interessi e deliberazione. La rappresentazione degli interessi (stakeholder representation) ci ha servito bene quando le società erano semplici e gerarchiche. A quei tempi, una decina di persone intorno a un tavolo potevano prendere una decisione, sapendo che sarebbe stata eseguita. Questo non è più possibile. In un progetto collaborativo non si discute sul cosa fare. Nell’ambito dei valori di riferimento, puoi fare quello che vuoi purché ne abbia la capacità. Chi fa il lavoro decide cosa fare e come farlo. Nessuno può dire a nessun altro come contribuire. Confronta con interminabili dibattiti e veti incrociati.

Quando scriviamo enciclopedie online o software per web servers lavoriamo così. Stessa cosa quando facciamo imprese come Edgeryders. Potremmo lavorare così anche quando costruiamo le città, i parchi nazionali, le griglie elettriche? Potremmo farlo non nel nome di un’ideologia, ma semplicemente per costruire la nostra stessa felicità e abbondanza, e quella di coloro che amiamo?

Potrebbe esserci un altro spazio dove costruire? Un terreno così iperlocale e frammentato da divenire troppo costoso per uomini forti narcisisti e consiglieri machiavellici? Una mossa così laterale da non esistere nemmeno nello stesso spazio della politica post-truth?

Non lo sappiamo ancora. Ma, mentre sale la marea nera del 2016, vediamo gente nelle nostre reti che pone domande nuove. Qualcosa di nuovo, qualcosa di grande si sta muovendo. Come sempre, staremo vicino alla nostra comunità, e daremo una mano per quanto possiamo. Se anche tu aspetti da tempo che qualcosa si metta in moto; se vuoi contribuire a costruirlo, e a capire dove ci porterà, sentiamoci. Nadia rivelerà alcuni dei nostri piani immediati a AdaWeek a Parigi, il 22 novembre (info).  Se non puoi venire, scrivi a Nadia o iscriviti alla mailing list.

[written with Nadia El-Imam]

Perché l’open government sta fallendo (ma alla fine vincerà comunque)

Gli accordi di corridoio e le clientele sono strumenti classici di governo. Molte persone, però, non li amano, e non se ne fidano. Preferiscono una governance aperta e trasparente. Io sono tra queste, e probabilmente anche tu.

Ispirato da questi valori, ho guardato Internet diffondersi su tutto il pianeta, e ho visto un’opportunità. Ho dedicato parecchi anni di lavoro a esplorare come le forme di comunicazione che Internet rendeva via via possibili potessero rendere la democrazia migliore, più intelligente. Gran parte di questo lavoro era pratico. Consisteva di progettare e realizzare progetti di governo aperto (open government), prima in Italia (Kublai, Visioni Urbane), poi in Europa Edgeryders).

Circa dieci anni fa, le poche persone che, in tutto il mondo, lavoravano su questi temi hanno cominciato a entrare in contatto gli uni con gli altri. Abbiamo cominciato a scambiarci esperienze, a riflettere insieme, a costruirci luoghi di incontro. Continuiamo a farlo anche oggi. E c’è una novità: questo dibattito si sta spostando. Non stiamo più parlando degli argomenti che ci appassionavano nel 2009. Se hai a cuore la democrazia, questa è una notizia in parte buona e in parte cattiva, e comunque importante e eccitante.

Alla fine degli anni duemila, pensavamo che Internet avrebbe migliorato il funzionamento della democrazia abbassando i costi di coordinamento tra i cittadini. Questo funzionava in tutti gli ambiti. Rendeva tutto più facile. Trasparenza? Basta mettere le informazioni su un sito, e renderlo rintracciabile dai motori di ricerca. Partecipazione? I sondaggi online costano poco. Collaborazione tra governo e cittadini? Puoi usare wiki e forum online, e  avvantaggiarti dell’ubiquità della Rete per attirarvi le persone che hanno la conoscenza che serve all’azioen di governo. Avevamo la teoria. Avevamo (un po’ di) esperienza pratica. Cavalcavamo l’onda della diffusione inarrestabile di Internet. Con l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti nel 2008, avevamo anche il primo leader globale che sosteneva questi principi, sia a parole che nei fatti. Stavamo vincendo.

Ci aspettavamo di continuare a vincere. Avevamo un vantaggio strategico: il governo aperto non richiedeva un cambiamento culturale per essere messo in pratica. L’adozione delle sue pratiche non era una rivoluzione; era più un retrofit, un innesto di nuova tecnologia senza modificare l’infrastruttura esistente. Per spingerle usavamo parole familiari alla vecchia guardia: trasparenza, accountability, partecipazione. Erano come talismani. I dirigenti pubblici non erano sempre entusiasti di ciò che facevamo, ma non potevano certo dichiararsi apertamente contro questi valori. E, quando i nostri progetti venivano realizzati, causavano il cambiamento culturale. I servitori dello stato imparavano a lavorare in ambienti aperti e collaborativi; era difficile per loro ritornare al controllo dell’informazione e al need to know. Quindi, concludevamo, questa cosa può andare solo in una direzione: verso più Internet nelle pratiche di governo, più trasparenza, partecipazione, collaborazione. Il dibattito rifletteva questa posizione, e veniva riassunto in libri come The Wiki Government  di Beth Noveck'(2009) and il mio Wikicrazia (2010).

Ora è cambiato tutto.

Me ne sono convinto leggendo due libri recenti. Uno è Smart Citizens, Smarter Governance, di Beth Noveck. L’altro è Complexity and the Art of Public Policy, di David Colander e Roland Kupers. Considero questi lavori un progresso rispetto a qualunque cosa sia stata scritta in precedenza.

Beth è un faro per chi si occupa di governo aperto. È stata tra i suoi pionieri, con un progetto che si chiama Peer2Patents. A causa di esso, il presidente Obama l’ha voluta nel suo transition team prima, e alla Casa Bianca più tardi. Ha moltissima esperienza a tutti i livelli, dalla teoria alla realizzazione a alla policy. E ha un messaggio per noi: l’open government sta fallendo. Ecco il passo più significativo:

Nonostante tutto l’entusiasmo per i benefici potenziali di una governance più aperta; il movimento open government ha avuto un impatto davvero modesto sul modo in cui prendiamo decisioni pubbliche, risolviamo problemi e allochiamo beni pubblici.

Perché? La causa immediata più importante è che le pratiche di governo sono scritte nella legge. Cambiare le leggi è difficile, e ha effettivamente bisogno di un cambiamento nella cultura dei legislatori incaricati di riformarle. La causa ultima è ciò che Beth chiama governo professionalizzato. Il ragionamento è questo:

  1. Per prendere decisioni sulla base dell’informazione disponibile, è necessario che quest’ultima sia filtrata, riaggregata, curata. Per fare questo servono esperti.
  2. Come facciamo a capire quando una persona è un esperto? Guardiamo se appartiene a una professione (medico, avvocato, biologo…). L’attività di governo è oggi completamente professionalizzata; solo il parere degli esperti è considerato utile (ma non è sempre stato così, anzi).
  3. Di conseguenza, “aprirsi significa esercitare muscoli civici che si sono atrofizzati”, e considerare i cittadini potenzialmente competenti a contribuire alla progettazione delle politiche pubbliche.
  4. Inoltre, le professioni sono esclusive per definizione. Ogni volta che prendono piede, si muovono per escludere i non-membri da quello che considerano il loro terreno. Oggi, tutte le persone importanti nei governi sono professionisti, e condividono l’idea che i cittadini comuni non hanno competenze utili. Interagendo tra loro, queste persone formano un ambiente di lavoro che rinforza questa loro convinzione. Risultato: “molti omaggi retorici all’idea di engagement, ma poca condivisione vera del potere”.

Oggi diamo per scontato che l’attività di governo sia professionalizzata. La consideriamo una specie di legge di natura. Ma non è così. Nel libro, Beth racconta in dettaglio come il governo si è professionalizzato negli Stati Uniti. All’inizio della loro storia, gli USA sono governati da agricoltori gentiluomini. L’amministrazione era guidata da un corpus di conoscenza chiamata citizen’s literature, che i servitori dello Stato imparano direttamente sul lavoro. Con il tempo, sempre più persone vengono assunte nell’amministrazione pubblica. Questo processo creato e fa crescere in numeri e potere una nuova classe di professionisti del governo – persone che non hanno mai fatto altro nella loro vita, né si aspettano di farlo. Questa classe usa il suo potere per consolidare la propria posizione, rendendo la burocrazia pubblica una professione. Codici di condotta vengono redatti. Le università creano dipartimenti di diritto e scienze sociali, luoghi di addestramento e reclutamento dei burocrati del nuovo tipo. Tutto questo accade in sintonia con un movimento di tutta la società verso la misurazione, la standardizzazione e l’ordine amministrativo.

Beth ritrae questo movimento in un affresco ricco e convincente; è una delle parti del libro che preferisco. Poi, spiega che i nuovi modi di mettere le competenze degli esperti a disposizione dei policy makers sono illegali negli Stati Uniti. Perché? A causa del Paperwork Reduction ActQuesta legge non intendeva vietare la ricerca di esperti via Internet (è del 1995), ma è scritta in modo che la formazione di comitati che consigliano il governo sia strettamente regolamentata e tecnicamente difficile. Ma perché il Paperwork Reduction Act è sembrato necessario? Il legislatore americano stava tentando di proteggere la burocrazia da interferenze e pressioni da parte di coloro che la burocrazia deve regolare. Per fare questo, ha relegato chiunque non sia un professionista del governo al ruolo di rappresentanza degli interessi. Questo vuol dire che i cittadini sono importanti non per quello che sanno, ma per chi rappresentano, per “chi li manda”. È emersa un’architettura di governo professionalizzato che protegge sé stessa, senza bisogno di un architetto.

Architetture senza architetti? Questa è complessità. Il viaggio intellettuale di Beth l’ha portata alle dinamiche dei sistemi complessi. Lei non lo scrive proprio in questi termini, ma è chiaro. Questa storia ha feedback positivi, effetti di lock-in, emergenza. Beth ha dovuto imparare a pensare in termini di sistemi complessi per navigare le politiche pubbliche. La capisco bene, perché la stessa cosa è accaduta a me. Mi sono dovuto insegnare la matematica delle reti come strumento principale per pensare la complessità. E dovevo imparare a pensare la complessità, perché mi occupavo di politiche pubbliche, e quello era l’unico modo di farle funzionare.

L’altro libro che ho citato, quello di David Colander e Roland Kupers, parte direttamente dalla scienza dei sistemi complessi. La sua domanda è: come sarebbero le politche pubbliche se fossero progettate in una prospettiva di sistemi complessi? 

Le risposte sono affascinanti. La polarizzazione “libero mercato contro stato” sparirebbe. Sparirebbe anche il predominio della scienza economica, e le politiche economiche verrebbero considerate parte delle politiche sociali. Lo stato promuoverebbe norme sociali benefiche, così che i cittadini vogliano fare scelte vantaggiose per sé e per gli altri invece di essere costretti a farle dalla legge. Le agenzie governative sarebbero fortemente interdisciplinari. Sperimentazione e reversibilità sarebbero incorporati in tutte le politiche pubbliche.

Colander e Kupers hanno scritto il loro libro senza avere letto quello di Beth, e viceversa. Ma i due libri convergono alla stessa conclusione: fare politiche pubbliche nel ventunesimo secolo è un problema di sistemi complessi. Senza un approccio basato sulla complessità, le politiche falliscono. Condivido questa conclusione. In effetti, ho cominciato a studiare scienze della complessità nel 2009. Negli ultimi quatto anni ho approfondito in particolare la scienza delle reti. L’ho fatto perché anch’io progettavo politiche pubbliche; dovevo districarmi in situazioni intricate, e il potere esplicativo del pensiero della complessità era evidente. Nei primi anni il mio percorso è stato molto solitario: oggi sono sollevato e orgoglioso di trovarmi sullo stesso sentiero di gente intelligente come Beth, Colander e Kupers.

Ma c’è ancora un pezzo mancante. Pensare in termini di sistemi complessi ci aiuta a capire perché le politiche pubbliche non funzionano. Non sono ancora convinto che ci aiuti a farle funzionare davvero. Questo tipo di scienza ha funzionato bene nelle scienze naturali. La fisica e la biologia cercano di capire la natura, non di cambiarla. Non c’è policy qui. La natura non fa errori.

Quindi, capire un fenomeno in profondità significa rispettarlo, almeno in parte. Prova a indicare un problema sociale a uno studioso di sistemi complessi, per esempio la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Ti mostrerà la legge di potenza della distribuzione; lo spiegherà con una dinamica di feedback positivo, tipo success breeds success; aggiungerà che questo succede molto spesso in natura; e descriverà quanto è difficile allontanare un sistema complesso dal suo attrattore. Il pensiero della complessità funziona benissimo per individuare in anticipo politiche inefficaci e controproducenti. Per ora, non ha funzionato altrettanto bene a individuare cosa possiamo fare che, invece, sia efficace.

Gli autori di entrambi i libri hanno dei suggerimenti per i policy makers. Ma non sono particolarmente convincenti. 

La soluzione principale di Beth è una specie di database ricercabile per esperti. Un policy maker che ha bisogno di competenze potrebbe scrivere, per esempio, “open data” in un campo di ricerca, e connettersi con persone che sanno molte cose sugli open data. Questo dovrebbe funzionare bene per i problemi ben definiti, in cui il policy maker sa con certezza dove cercare una soluzione. Ma molti problemi di policy interessanti non sono affatto ben definiti. L’inquinamento atmosferico in città è un problema tecnologico? Allora dovremmo intervenire sul settore automobilistico per fargli produrre auto meno inquinanti. O è un problema di pianificazione urbana? Occorre modificare il piano regolatore, avvicinando i luoghi di lavoro a quelli di residenza per ridurre il pendolarismo. Un problema di organizzazione del lavoro, forse? Dovremmo incoraggiare i datori di lavoro a eliminare i loro uffici e dare ai dipendenti strumenti software perché possano lavorare da casa? Un momento, forse è un problema di mode: potremmo usare il marketing per rendere le biciclette più popolari. Nessuno lo sa. Probabilmente il problema è tutte queste cose, più chissà quante altre. Non è affatto chiaro a priori che tipo di esperto ti serve, tanto più che ogni mossa che fai in una delle dimensioni del problema influenzerà le altre.

Non è ancora finita, Le categorie stesse in cui raggruppare gli esperti sono socialmente determinate, e in continua trasformazione. Puoi immaginare un policy maker che cerca un esperto in  open data nel 1996? No, perché il concetto non esisteva. Il database di Beth può, oggi, aiutarci a trovare esperti in open data solo perché qualcuno ha ricombinato le componenti di ciò che oggi chiamiamo open data (tecnologie, standard, licenze etc.) in un modo nuovo, che risolveva certi problemi. Questo ha funzionato così bene che ha ricevuto un’etichetta, appunto open data, che oggi potete mettere nel vostro CV in modo che una ricerca nel database di Beth vi trovi. Quindi, la soluzione di Beth può trovare esperti di discipline già codificate, ma non quelli delle soluzioni in via di codificazione; ma sono questi ultimi quelli che contano, quelli che stanno sulla frontiera dell’innovazione.

Colander e Kupers hanno le proprie soluzioni, come racconto sopra. Sono soluzioni brillanti e sensatissime. Sono anche in netta rottura con il modo in cui il governo funziona oggi. È improbabile che emergano per caso. Chiunque abbia provato a fare innovazione in un’amministrazione pubblica sa quanto sia difficile fare passare qualunque cambiamento, anche piccolo. Come funzionerebbe la riprogettazione radicale auspicata da Colander e Kupers? Per diktat di qualche leader visionario? Possibile, ma ricorda: la modalità attuale di funzionamento della macchina governativa è emersa (“architettura senza architetti”). Entrambi i libri offrono resoconti sofisticati di questo emergere. Con tutta l’ammirazione che ho per i loro autori, mi pare incoerente che propongano, invece, una soluzione imposta dall’alto.

Quindi, dove vanno le politiche pubbliche del ventunesimo secolo? Al momento, non vedo alternative ad abbracciare il pensiero della complessità. È molto forte nell’analisi, e una volta che cominci a vedere le cose in questi termini è impossibile smettere di vederle. Inoltre, fornisce soluzioni implementabili localmente. Per esempio, in certi casi puoi convincere lo stato a fare cose coraggiose e innovative in via sperimentale, e sperare che quello che succede nell’esperimento venga imitato. Per ora, questo dovrà bastarci. Ma va bene così. L’età dell’innocenza è finita: oggi sappiamo che non c’è nessuna soluzione facile e veloce. Forse un giorno avremo soluzioni sistemiche non velleitarie: se mai ci arriveremo, è probabile che Beth Noveck, David Colander e Roland Kupers siano i primi a trovarle.

Photo credit: Cathy Davey on flickr.com

Foto: Wikimedia

OpenPompei: verso l’ultimo atto, con un direttore scientifico in meno e un volontario in più

(ripostato da OpenPompei)

Il 2015 è stato, per OpenPompei, un anno di attività intensa e aperta sul mondo. Abbiamo lavorato tanto in collaborazione stretta e diretta con il territorio pompeiano; con la piccola ma attivissima comunità degli archeologi accademici che producono e usano dati aperti; con le associazioni di Civic Hackers. Le tappe principali di quest’anno sono state lo STVDIVM, cioè una scuola di dati aperti per l’archeologia; lo SCRIPTORIVM, cioè il primo archeo-hackathon d’Italia e uno dei primi al mondo; e TEDxPompeii, un momento di incontro e di raccordo per gli innovatori del Sud, nel segno della legalità. Ho già proposto un riepilogo e una riflessione sul progetto fin qui. L’unica cosa da aggiungere è la nuova versione del sito open data del Grande Progetto Pompei (http://open.pompeiisites.org/), che verrà pubblicata entro fine anno. E’ basata su DKAN ed è stata costruita dialogando in modo continuo con la Direzione Generale del MIBACT che si occupa del GPP.

Patti_Marina_OSM

Ci sono diversi segni che la strategia di apertura, collaborazione con le istituzioni pur mantenendo una forte autonomia di pensiero e di azione, e di leading by example di OpenPompei comincia a funzionare. Diverse persone ci hanno raccontato che si stanno muovendo, stanno prendendo coraggio. L’ultimo episodio di cui ho avuto notizia è la mappatura della villa romana di Patti Marina su OpenStreetMap che secondo il suo realizzatore, il civic hacker siciliano Nino Galante, è direttamente ispirato a OpenPompei. Il TEDxPompeii, con la scelta forte di invitare Roberto Saviano per unire beni culturali e legalità, è stato molto apprezzato, anche fuori dall’Italia. Visti attivismo passato e segnali incoraggiati, immagino che alcuni si aspettassero un turbine di attività dopo l’estate, per poi avviarsi alla fine del progetto. Così non è stato, e sento di dovervi una spiegazione.

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Succede questo: da maggio 2014 (non è un errore, proprio duemilaquattordici) la struttura amministrativa di OpenPompei è andata in sofferenza. Sono successe due cose:

  1. È diventato via via più difficile utilizzare in modo intelligente la fonte finanziaria di OpenPompei, il Piano Operativo Nazionale Governance e Territorio, per gli amici PONGAT. Nonostante gli sforzi e la competenze di Studiare Sviluppo (la nostra “nave madre”), gli strumenti a nostra disposizione sono venuti riducendosi. Per esempio, ci è divenuto impossibile fare attività in qualunque luogo non sia Pompei; e ci è molto difficile invitare a Pompei civic hackers e archeologi che risiedono altrove, pagando loro il viaggio. La scheda di progetto di OpenPompei specifica con chiarezza che la platea degli stakeholders del parco archeologico di Pompeii, forse il più famoso sito archeologico al mondo, è per definizione globale; e ci assegna il compito di collegare il locale con il globale, il territorio con il mondo. Ma poi non ci dà gli strumenti amministrativi per farlo! Mah. Per fortuna c’è Internet, e molte relazioni sono passate da lì.
  2. Studiare Sviluppo stessa è entrata in una fase di ritardi nei pagamenti. Fatica a farsi pagare; fatica a pagare i collaboratori (io, per dire, non ho ricevuto ancora nessun compenso per il 2015). Ai ritardi, purtroppo, si aggiunge l’incertezza; non si sa quando e se le cose si risolveranno. Abbiamo deciso di non essere troppo puntigliosi, di dare la priorità a fare le cose, e le abbiamo fatte; però, inutile negarlo, il mix micidiale di pagamenti in forte ritardo, totale mancanza di certezze e ostacoli amministrativi hanno logorato lo spirito del mio team. Dopo la doccia di adrenalina di SCRIPTORIVM e TEDx, dopo le vacanze estive, avevamo in mente una chiusura di progetto molto ambiziosa, ma non siamo (ancora) riusciti a concretizzarla.

La fine di OpenPompei era prevista per la fine di ottobre 2015; a quella data tutti i nostri contratti sono andati in scadenza. Studiare Sviluppo ha chiesto e ottenuto una proroga a fine gennaio 2016 per terminare il progetto con ordine; ha inoltre proposto al mio intero team una proroga dei rispettivi contratti per lavorare su una seconda linea di attività di OpenPompei, che si chiama “azioni territoriali”, e di cui io non sono, nè sono mai stato, responsabile (anzi, non ne so praticamente niente). Anche se mi sembra una buona idea in generale, per quanto mi riguarda ho rifiutato la proroga, perché non mi sento di accettare responsabilità a fine progetto per una linea d’azione che non ho mai seguito, e perché non vedo la serenità amministrativa necessaria per lavorare bene.

Conclusione: io scendo qui. A partire dal 1 novembre 2015 non sono più il direttore scientifico di OpenPompei. Il lavoro fatto a novembre sull’evento di chiusura è stato lavoro volontario; non escludo di farne altro, ma non accetterò più pagamenti, nè responsabilità, per farlo. Il team di OpenPompei resta in sella con contratto prorogato, e sta decidendo su come chiudere il progetto. Continuate a seguire il blog per restare aggiornati.

L’ultima parola è: grazie. Grazie a tutte le persone con cui ho condiviso questa avventura entusiasmante e imperfetta. Impossibile ricordarle tutte. Ho già citato, ma voglio citare ancora, il “mio” team e Studiare Sviluppo, che ha portato la notevole responsabilità di fare da ponte tra il nostro piglio civic hacker e la pubblica amministrazione. Dal lato pubblica amministrazione sono particolarmente grato a Giampiero Marchesi, presidente dello Steering Committee del Grande Progetto Pompei, memoria storica e regista dell’intera policy governativa sull’area pompeiana dalla plancia del Dipartimento Politiche di Sviluppo (oggi Agenzia per la Coesione Territoriale); a Fabrizio Barca, vero ideatore dell’operazione al tempo in cui era ministro, e al suo staff; al Soprintendente Osanna e ai suoi collaboratori (spero che questi ultimi ci perdoneranno alcuni rapporti non proprio idilliaci; alla fine siamo tutti dalla stessa parte, la parte della cultura e della legalità). Un saluto militare al Direttore Generale del MIBACT responsabile del Grande Progetto Pompei, Generale Giovanni Nistri, e ai suoi collaboratori: per merito loro, tutti noi a OpenPompei siamo diventati fans sfegatati dell’Arma. Menzione speciale per il tenente-civic hacker Emanuele Riganelli, che ha sfidato il fuoco nemico un giorno sì e l’altro pure nel nome di trasparenza, legalità, e open data. Dal lato associazionismo e archeologia open, mi vengono in mente Eric Poehler e il Pompeii Bibliography and Mapping Project, Julian Richards e l’Archaeological Data Service, il progetto MAPPA dell’Università di Pisa, la conferenza Computer Applications in Archeology, Wikimedia Italia, Libera, Open Knowledge Foundation Italia, MappiNa, OnData, Spaghetti Open Data, Wikitalia, Monithon, e sicuramente ne dimentico molte altre. Grazie a tutti voi, esco da questa esperienza un po’ più civic hacker, un po’ più esperto di politiche pubbliche, un po’ più ricco di relazioni e del sapere che mi avete regalato. Conosco Pompeii molto meglio di prima, e la sento molto più mia.

E ho capito questo: la strada di OpenPompei è difficile, ma giusta. Ha senso occuparsi di beni culturali dal lato open data, trasparenza e civic hacking. Soprattutto al Sud. Intendo continuare a occuparmene in futuro, anche come presidente di Wikitalia.

I dati di budget di OpenPompei sono pubblicati come open data sul sito di Open Knowledge Foundation. Li trovate qui: ho chiesto che vengano aggiornati, spero che il mio ormai ex gruppo provveda rapidamente.