Repostata da Chefuturo – In collaborazione con Anthony Zacharzewsky
I leaders europei hanno un accordo con il governo turco. Funziona così: i profughi siriani non possono più spostarsi dalla Grecia a altri paesi dell’UE. Li rimandiamo in Turchia. Per ciascun siriano rispedito in Turchia, ne prendiamo un altro da un campo profughi turco e lo lasciamo entrare in Europa. La Turchia ci guadagna una ripresa dei negoziati per il suo ingresso nell’Unione, visti più facili per i cittadini turchi che vengono in Europa, e denaro. Ma cosa ci guadagna l’Europa?
Non molto, pare. Gli esperti pensano che lo schema “uno per uno” non sia realistico. Lo stato greco, a corto di personale dopo anni di austerità, non ha le risorse umane per gestirlo. Le organizzazioni filantropiche pensano che sia “disumano“. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite mette in discussione la credibilità delle misure volte a proteggere i richiedenti asilo più vulnerabili. I diplomatici europei si aspettano che l’accordo venga impugnato di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a Strasburgo. I trafficanti di uomini avranno un aumento del loro giro di affari.
Praticamente nessuno pensa che lo schema funzionerà davvero. E se funzionasse, potrebbe peggiorare le cose. Non solo per chi ha attraversato il deserto per rimanere bloccato in Grecia. Anche per gli europei. Gli economisti hanno fatto i calcoli tempo fa: i migranti contribuiscono al welfare europeo più di quanto gli costano (fonti). Sono in media più giovani, più istruiti e più imprenditoriali di noi indigeni. Con tutti i loro svantaggi, i profughi siriani hanno fondato 415 nuove imprese in Turchia nei primi due mesi del 2016. Senza immigrazione, la nostra popolazione invecchia, e presto non sarà in grado di mantenersi (fonte). L’immigrazione fa bene alla crescita – e infatti le imprese ne chiedono di più.
Insomma, i leaders europei sono rimasti incastrati in un pessimo accordo, che ha svantaggi umanitari e nessun vantaggio. Così facendo, hanno anche danneggiato le loro (e nostre) economie. Cosa sta succedendo qui?
La risposta facile: la politica. Negli ultimi anni sono cresciuti in tutta Europa partiti populisti, spesso nazionalisti etnici, sempre anti-governo e anti-UE. Si rivolgono alle persone che si sentono perdenti, rifiutate dal “nuovo” mercato del lavoro. Quelle che non credono di potere competere con i tanti giovani altamente scolarizzati d’Europa. I populisti non hanno un vero progetto. Non gli serve. Hanno di meglio: un capro espiatorio, i migranti appunto.
La crisi economica ha aiutato l’ascesa di questi partiti. Ma, anche se la crescita economica ritornasse domani, essi non sparirebbero. La loro forza deriva da un problema più profondo: abbiamo permesso a noi stessi di dimenticare perché stiamo costruendo un’Europa unita.
L’Europa fa molte cose. Produce standards, per esempio, come GSM per i telefoni cellulari. Gli standards sono utili. Permettono innovazione e crescita, e riducono il rischio di impresa. Ma non sono un fine in sé. Sono solo il mezzo per costruire il mercato unico europeo. E il mercato unico stesso è solo un mezzo. Il suo fine è prevenire le guerre in Europa.
Il fine dell’Europa è la pace. Ci sono state molte iniziative di pace nel corso della storia, ma l’Unione Europea è progettata in modo da essere irreversibile. Nel corso dei decenni, le istituzioni europee hanno permesso a noi, i cittadini, di costruire una fitta rete di rapporti che ci unisce. All’inizio abbiamo fatto commercio internazionale. Poi integrato i sistemi educativi (diplomi e lauree riconosciuti in tutta Europa; Erasmus); poi partenariati negli affari; poi migliaia e migliaia di amicizie e matrimoni. Gli “altri” sono diventati i nostri clienti, partners, amici, famiglia. La guerra è diventata impossibile, impensabile.
Questa visione del mondo non si ferma ai confini dell’Unione. Pace e prosperità attraverso il commercio sono il cardine anche della nostra politica estera. Ai paesi con cui confiniamo questo piace, e quindi vogliono entrare nel club. E noi li abbiamo fatti entrare. Abbiamo investito con saggezza in quelli meno sviluppati, usando fondi europei per migliorare le loro infrastrutture. E loro ci hanno ricompensato diventando paesi prosperi, con una solida classe media che domanda auto tedesche, design italiano, servizi finanziari britannici. La Spagna, poi l’Irlanda, poi l’Estonia, poi, la Romania.
Il sistema è ancora in funzione. I balcani erano in guerra solo vent’anni fa. Ora sono in pace, e si stanno arricchendo. L’Europa piace laggiù, e anche loro piacciono a noi. Siamo buoni vicini. Finanziamo autostrade, biblioteche ed edifici pubblici. A una frazione del costo di una presenza militare, abbiamo prestigio e influenza. Possiamo viaggiare in tutta la regione parlando inglese, tedesco e italiano. Possiamo pagare in euro dappertutto. Tutti paesi sono in coda per entrare nell’Unione. Paragonate questa politica estera alle guerre di Bush. Niente da dire: costa meno, e funziona molto meglio.
Perché tutti questi paesi vogliono essere parte dell’Europa? Perché la pace, il rispetto dei diritti umani e il libero commercio funzionano. Il nazionalismo militarista, no. Chiedete agli ucraini: Vladimir Putin li vuole nella sua Unione Economica Eurasiatica, l’ultimo impero di vecchia scuola in Europa. Ma a loro questo non sembra interessare. Quando il loro presidente ha firmato un trattato di alleanza con la Russia nel 2014, hanno montato una rivoluzione, lo hanno cacciato dal paese e organizzato milizie civiche per combattere i paramilitari pro-Russia nell’est del paese. Tutto questo per difendere il loro futuro come parte dell’Unione Europea.
E non sono solo gli ucraini, i georgiani o i montenegrini. Sono anche i siriani, i tunisini, gli eritrei. Anche se i loro paesi non si muovono nell’orbita dell’Unione, la gente vuole essere parte dell’Europa. E questo, sì, è il fine dell’Europa; questa è la nostra proposta al mondo. Siamo l’unica comunità politica al mondo ad avere rinunciato alla violenza, e abbracciato la comprensione reciproca come l’unica via per procedere. Anche in questo momento di crisi, siamo un faro di speranza per l’umanità.
E questo ci porta a Brexit. Il 23 giugno, il Regno Unito tiene un referendum popolare sulla sua permanenza nell’Unione Europea. Al momento in cui scriviamo, il risultato è incerto. E incerte sono le sue conseguenze: possiamo solo prevedere che ci riguarderanno tutti.
La maggior parte del dibattito è di qualità pessima, da entrambe le parti (battezzate “Leave”, cioè “esci”, e “Remain”, cioè “resta”). Chi sostiene che l’UK dovrebbe rimanere in Europa non ha altri argomenti che il denaro. Importante, certo, ma non trasmette il senso delle ambizioni e delle possibilità dell’Europa. Per rassicurare gli elettori euroscettici, i sostenitori del Remain escludono ogni futuro sviluppo del rapporto tra l’UK e l’Europa. Il loro argomento è “votate per noi, la nostra Europa non ha Schengen, comprende molte eccezioni e opt-out, e non ha assolutamente l’Euro”.
Dall’altra parte, la stampa euroscettica è piena di populismo anti-migranti, e del desiderio di tornare a un tempo di unità nazionale, monocultura e piena occupazione che non è mai esistito. I politici nel campo del Leave non riescono ad accettare che le nazioni di medie dimensioni non hanno potere nel mondo moderno. Questo li costringe a inventare scenari futuri in cui la Gran Bretagna prospera attraverso la deregulation, o creando accordi di libero commercio con le sue ex colonie, o semplicemente costringendo gli europei a fare ciò che i britannici vogliono.
Questo è un tentativo di razionalizzare una reazione emotiva comune in Gran Bretagna: l’orgoglio per il parlamento, per la democrazia britannica, per i “mille anni di storia britannica”. Sovranità, democrazia, potenza nazionale sono concetti scivolosi. Il mondo arido dei summit e dei compromessi europei può essere molto efficace, ma non è romantico.
Negli ambienti di Bruxelles molti credono che l’Europa, alla fine, avrà successo. In piena crisi dell’Euro, un politico europeo dichiarava: “tutti sappiamo cosa dobbiamo fare. È solo che non sappiamo come farci rieleggere dopo averlo fatto”. Il tempo è passato, quell’uomo politico è diventato presidente della Commissione, i governi nel continente sono cambiati. L’Euro è rimasto. Forse tra cinque anni la crisi migratoria e Brexit avranno fatto la stessa fine. Non saranno veramente risolte, ma nemmeno presenti nei nostri pensieri, se non come ricordo di un momento di panico.
O forse no. Si dice che, per un’impresa, la bancarotta cominci lentamente e poi acceleri di colpo. Guardandoci intorno, vediamo i segni di svuotamento delle istituzioni europee, così come di quelle della politica nazionale.
Ma in quell’amore romantico dei Brexiters c’è la risposta ai problemi della politica europea, non solo di quella britannica. Dobbiamo rendere l’Europa qualcosa in cui possiamo credere – non con un moto dei sentimenti, ma come progetto condiviso di costruzione, basato sui principi di libertà, apertura, democrazia.
Non possiamo inventarci un nazionalismo europeo per decreto. Non possiamo imporre alle persone di sentirsi un nodo alla gola quando sentono l’Inno alla Gioia. Alcuni di noi lo sentono già ora, altri potrebbero farlo in futuro, ma nessuno può esservi costretto. Invece, possiamo e dobbiamo celebrare le connessioni e le reti d’Europa come successi, invece di denigrarle come fallimenti.
Se non riusciamo a fare questo, cos’altro possiamo fare noi europei? Beh, potremmo seguire l’esempio di Brexit, e concentrarci sull’essere semplicemente 28 stati-nazione. Fattibile, forse. Ma saremmo stati-nazione di secondo ordine. Troppo piccoli. Troppo vecchi. Troppo afflitti da crescita bassa, debito alto, una popolazione sembre più vecchia e una politica pupulista, rancorosa e meschina. Una periferia nel secolo Asiatico e che ci attende.
Un continente pacifico dove muoversi liberamente è il nostro dono al mondo. Ci rende unici; fonda la nostra identità. Con i loro discorsi di spezzettamenti e limitazioni, i politici in Gran Bretagna e altrove possono guadagnare un po’ di visibilità mediatica, e forse consensi a breve termine. Ma si stanno giocando l’anima. E non la loro: la nostra.
Foto di Malachy Browne: murales a The Jungle, il campo profughi non riconosciuto a Calais (Francia).