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What does an art project have to teach us about facial recognition technology?

Reposted from Edgeryders

Paolo Cirio is one of my favorite artists – I saw some of his work at Ars Electronica a few years ago. His latest project (late 2020) is called Capture, and works like this.

  • First, the artist collected 1,000 photos of public protests in France.
  • Next, he zoomed and cropped the faces of police officers in those photos.
  • Third, he printed out these photos and stealthily stuck them up on the walls of Paris.
  • Fourth, he ran facial recognition software on the photos. Hold this in your head, it is important.
  • Fifth, he created a website where people could identify police officers: they were served pictures, and could enter a name.

The project turned out to be… explosive.

  • The police’s trade unions protested, as Capture was putting officers at risk.
  • The Minister of the Interior, Gérald Darmanin, tweeted his disapproval.
  • An exhibition of Capture scheduled to happen at Le Fresnoy, was canceled as the controversy mounted. Note: Le Fresnoy is in a city called Tourcoing, and Darmanin used to be the mayor of Tourcoing, stepping down during the preparation of the exhibition. Le Fresnoy denies receiving any outside pressure.
  • Cirio left France altogether to avoid “retaliation”.

Now, if you are like me, you’ll be thinking: wait, what does it even mean for an artist to “run facial recognition software” on a photo? It’s not like Cirio, or any of us, is sitting on a dataset with identified picture of everyone in France. In the absence of such a dataset, even the best facial recognition software is going to draw a blank, every single time.

And, well: this is why Cirio is a famous artist, and I am not. The reactions of the representatives of the police has been one of disgust, like they had been contaminated by something filthy: someone had somehow grabbed their photos, and run them through facial recognition software! They had been violated! Rationally, this is nonsense, but emotionally it is very powerful, and therein lies Cirio’s artistic gesture. *Capture* shows us the instinctive loathing and disgust of humans when been intruded upon, when people are looking at you and you were not ready for it. We want to own the image we project.

Thanks to this work, I learned the extent to which facial recognition is already out there in Europe. And, like Cirio says, it’s unevenly distributed: the police can hide as they use violence, but for ordinary citizens the camera is always on. France is one of the European countries where its usage is most widespread. In this 8 minutes video, French Internet lawyers call for an outright ban on facial recognition technology. This is also Cirio’s position – he even engaged the European Commission on this (and the Commission promised to look into it).

It seems that now the Commission gets to walk the talk, because Commission VP Margrethe Vestager is participating in the Us-EU Trade & Technology Council, and the Reclaim Your Face campaign is pushing for a blanket ban to biometric surveillance. We’ll see how that pans out.

Anyway. FWIW I highly recommend Capture. Here is a short presentation video made by the artist:

Photo taken from the artist’s website, unattributed.

798 Art District: gli amori difficili tra arte e mercato

Un luogo interessante che ho visitato recentemente è il distretto artistico 798 a Pechino. Si tratta di un grande complesso industriale per la produzione di componenti elettronici (soprattutto transistors) costruito negli anni Cinquanta dal governo cinese in collaborazione con quello della Repubblica Democratica Tedesca. Parzialmente dismesso in quanto fabbrica a partire dagli anni Ottanta, 798 ha conosciuto una seconda vita a partire dal 1995 (o 2000, secondo altre fonti), quando artisti e gallerie d’arte hanno cominciato a stabilirsi nei capannoni abbandonati, attratti dall’ampia disponibilità di spazi a costi molto bassi e dal fascino della costruzione in stile Bauhaus voluta dagli ingegneri tedeschi. Nei primi anni Duemila si è trasformato in una specie di utopia artistica: un luogo assolutamente affascinante, dove artisti e galleristi vivono e lavorano insieme agli operai delle fabbriche ancora in attività del complesso. Grazie al fatto che c’è tantissimo spazio (è grande quanto un piccolo paese), i protagonisti della rinascita di 798 si sono potuti sbizzarrire, disseminandolo di ironiche statue di Mao, dinosauri di ceramica, finte cabine del telefono, robottoni da combattimento in stile manga alti dieci metri realizzati con rottami metallici (i miei preferiti); e anche ospitando concerti, rave e performance (un luogo amato per questo è la suggestiva Originality Square), festival di cinema come il newyorkese Tribeca. Oggi 798 è di gran lunga il luogo più importante – anche economicamente – della nascente arte contemporanea cinese (che è già un bel business: nell’arco del 2007 il solo Zhang Xiaogang ha venduto dipinti per 57 milioni di dollari). Ovviamente sono fioriti caffè, ristoranti, e negozi con un penchant artistoide.

Sarebbe davvero affascinante potere studiare in dettaglio le dinamiche di crescita di 798, soprattutto adesso che l’esperimento di Visioni Urbane si avvia alla conclusione con la consegna degli spazi creativi che abbiamo progettato e commissionato insieme, e la loro assegnazione alle cordate di imprese e associazioni che li gestiranno. Per ora annoto le riflessioni sparse che mi sono venute dalla visita e dalla lettura di libri e documenti sull’esperienza.

  • L’estetica conta. Da economista, ho sempre pensato che gli spazi industriali abbandonati sono interessanti per l’impresa creativa perché costano poco, e perché – essendo esteticamente neutri – puoi trasformarli in quello che vuoi, da laboratorio asettico a caverna steampunk. Invece i pareri che ho raccolto sono concordi sul fatto che 798 ha attirato gli artisti perché ha un’estetica unica, e la cura messa nella sua progettazione (per esempio: i tetti “a dente di sega” e finestre rivolte a nord per massimizzare la luce naturale senza che questa producesse ombre) è incomparabile con quella di altre fabbriche costruite in Cina nello stesso periodo.
  • La crescita organica ha una marcia in più. 798 accoglie una grande varietà di opere e di organizzazioni, ma al tempo stesso è chiarissima una coesione estetica e socioeconomica di fondo: sembra una formazione di corallo, in cui le varie specie competono, cooperano e si scambiano informazione in una continua danza di coevoluzione. Una pianificazione dall’alto non ha nessuna possibilità di produrre una cosa del genere. Questo non esclude un ruolo del policy maker nella creazione di un distretto artistico, ma consiglia per esso il ruolo di mettere in modo l’evoluzione, non quello di prendere decisioni sugi esiti. Un esempio si ritrova nella storia stessa di 798: l’evento da cui nasce la nuova fase della vita del distretto è l’occupazione temporanea di una delle ex fabbriche da parte dell’Accademia Centrale d’Arte di Pechino, avvenuta nel 1995. L’Accademia era solo in cerca di spazi laboratoriali a buon mercato mentre traslocava da una vecchia sede a una più nuova, ma questo evento ha portato molti artisti e studenti d’arte a esplorare l’area. Il preside della facoltà di scultura Sui Jianguo rimase così affascinato dal luogo da trasferirvi il proprio studio, uno dei primi artisti noti a traslocare.
  • Il successo di un distretto artistico ne mette in pericolo la credibilità e la sostenibilità. Mentre grandi aziende cominciano ad organizzare propri eventi a 798 in cerca del cool effect, molti artisti lamentano il rapido aumento dei costi degli affitti e temono la mercificazione eccessiva. E in effetti, molte opere esposte nelle tantissime gallerie del distretto mostrano una tendenza inquietante a riprendere in chiavi diverse l’iconografia del comunismo cinese: statue di Mao, libretti rossi e stelle rosse. Perché? Perché i riferimenti al comunismo cinese costellano il lavoro degli artisti che vendono molto e hanno molto successo, come Zeng Fanzhi o il citato Zhang Xiaogang. La pressione sugli affitti, naturalmente, aumenta l’incentivo all’imitazione, e priva gli artisti e le gallerie dello spazio mentale per sviluppare nuovi prodotti. Molti osservatori temono il collasso dell’attuale ecosistema e la trasformazione di 798 in una specie di ipermercato dell’arte contemporanea cinese.
  • Se il successo economico ottenuto dal distretto è eccessivo rispetto alle esigenze della creazione artistica, è però insufficiente a proteggere 798 dalla speculazione immobiliare. Quell’area, un tempo periferica, si trova oggi sul corridoio strategico che collega il centro della città al nuovo aeroporto, ed è naturalmente oggetto di pressioni a demolire il complesso industriale per saziare la fame di residenzialità dei 13 milioni di abitanti, in crescita, della capitale cinese. Il proprietario di 798 è Sevenstar, una società a capitale pubblico creata dalle fabbriche superstiti dell’area a cui il governo ha assegnato la responsabilità di gestire le vecchie fabbriche. Qui c’è un chiaro problema di governance: il mandato della società è in termini puramente finanziari, e i suoi vertici hanno l’obbligo di massimizzare la redditività dei terreni a loro affidati. L’alleanza tra proprietà e artisti ha retto fintanto che questi erano gli unici disposti a pagare un prezzo – anche se basso – per affittare le fabbriche abbandonate: appena queste sono diventate appetibili per soggetti eocnomicamente solidi le tensioni tra proprietà e artisti sono diventate molto forti. Nel 2005, le istituzioni artistiche di Pechino sono riuscite a convincere il governo che, nell’imminenza delle Olimpiadi del 2008, la città aveva bisogno di una vetrina artistica più che di qualche altro migliaio di appartamenti. L’anno successivo le autorità cittadine hanno istituito nell’area il primo “distretto centralizzato per la creatività culturale”. Niente bulldozers: al contrario, le strade sono state ripavimentate, l’illuminazione urbana rinnovata, e la gentrification (da noi si direbbe “infighettamento”), accelerato, insieme alla crescita degli affitti.

Questa è la Cina: a decidere, alla fine, è il governo – e in questo caso è difficile non applaudire la sua decisione. L’economista resta con il dubbio che l’economia di mercato sia destinata a stringere l’arte tra l’incudine della eccessiva commercializzazione e il martello dell’insufficiente redditività. Il che equivarrebbe a dire, temo, che l’economia dell’arte – una volta depurata dei sussidi pubblici palesi e nascosti e del wishful thinking – non esiste, e che arte e mercato possono vivere in simbiosi nel breve periodo, ma alla resa dei conti sono incompatibili.

798 Art District: the troubled marriage of art and market

An interesting place I visited recently is 798 Art District in Beijing. It is a large industrial complex for the manufacturing of electronic components (with transistors especially important) built in the Fifties by the Chinese government in cooperation with their East German counterparts. With production discontinued in most plants starting in the Eighties, 798 has known a second life after 1995 (or 2000, as other sources say), when artists and galleries started reclaiming the abandoned buildings, attracted by the abundant availability of cheap space and by the Bauhaus-style aesthetics dictated by German engineers. In the early Noughties the district turned into an art utopia: a fascinating place where artists and gallerists live and work side by side with workers of those factories in the complex that are still churning out product. There is so much space (it is as large as a small town) that people could and did engage in oh-what-the-hell activities, and scattered the landscape with ironic Mao statues, ceramics dynosaurs, ten-meters-tall manga style warrior robots build of pieces scavenged from old cars (my favourite); and hosting performances, raves, live concerts, film festivals like New-York based Tribeca. Today 798 is by far the most important – also in an economic sense – powerhouse of the fledgling Chinese contemporary art scene. And that means business: in the course of 2007 artist Zhang Xiaogang alone sold paintings for US$ 57 million. Obviously, trendy cafés, restaurants and shops with a bohemian penchant mushroomed.

It would be fascinating to study in depth, especially now that the Visioni Urbane experiment draws to its end, with the creative spaces being delivered and turned over to the coalition of firms and associations that will run them. For now I’m going to take a few notes, based on the visit and some reading.

  • Aesthetics matter. As an economist, I always thought that artists like derelict industrial spaces because they are cheap, and, being aesthetically neutral, they can be made into whatever they want, from aseptic lab to steampunk cave. But no: the statements I have collected agree that 798 attracted artists for its unique looks. To be sure, the care put in designing it by the Germans is unparalleled in contemporary industrial architecture in China (just look at the sawtooth profile of the roofs, or the large windows facing north to maximize shadowless lighting)
  • Organic growth just does a better job. 798 is home to a large variety of works and organizations, but at the same time it displays a very clear aesthetic and socioeconomic coherence. It feels like a coral reef, with various species fighting and cooperating and exchanging matter and information in an endless coevolutionary dance. Top-down planning dooes not stand a chance to achieve anything like this. This is not to say that there can be no role for the policy maker in the making of an art district, but it does recommend it takes on the role of starting the evolutionary engine and monitoring thatthe system moves in the general right direction, letting it work out its own layout. An example can be found in the story of 798 itself: the event that spawned the district’s second life is the temporary occupation of one of the dismissed factories by the Beijing Central Academy of Fine Arts in 1995. The Academy only needed cheap workshop space while it relocated to a new campus, but the event did bring many artists and art students to visit the area. The dean of the Faculty of sculpure, Sui Jianguo, fascinated by the space, relocated his personal studio to 798, and he was among the first established artists to make the move.
  • The economic success of an art district endangers its long-term credibility and sustainability. As corporations looking to be cool start to organize marketing events in 798, many artists lament a rapid rise in rental costs and fear excessive commercialization. To be sure, many of the pieces you’ll find in the maze of galleries have a disquieting tendency to rework in different contexts the iconography of Chinese communism: Mao statues, little red books and red stars. Why? Because (generally more sophisticated) references to Chinese communism are to be found in the work of the most successful and wealthy artists, like Zhang Fanzhi or the already quoted Zhang Xiaogang. Pressure on rental costs, of course, increases the incentive to imitation to make a quick buck, and takes away the mental space for artists and gallerists to develop new products. Many observers fear the collapse of the ecosystem now in place and the transformation of 798 into a sort of shopping mall of Chinese contemporary art.
  • The district’s economic success, while in a sense too great with respect to the needs of artistic creation, is too small with respect to protect 798 from the real estate market. The area, once peripheral, is today on the strategic corridor between the city centre and its new international airport, and pressure is mounting to just bulldoze the whole thing and develop it to satisfy the housing demands of a 13 million inhabitants (and counting) city. The owner of 798 is Sevenstar, a State-owned corporation established in 2001 with what remained of the old Mao-era complex; it has responsibility for managing the buildings. There’s a clear governance problem here: the corporation’s mandate is declined in purely financial terms, so its management’s duty is to maximize financial return, without any regard for cultural significance. The alliance between it and the artists lasted only as long as the latter were the only people willing to pay a rent, however low, to occupy the derelict factories: as soon as the space became interesting for financially stronger entities, the tensions between artists and the corporation mounted. In 2005 art institutions in Beijing were able to persuade the municipal government that – in the light of the coming 2008 Olympics – the city needed a contemporary art showcase more than it needed new housing. The following year, authorities designated the area the first-ever “centralized district for cultural creativity”. No bulldozing: instead, roads were repaved, street lighting enhanced, and gentrification (and rents) sped up.

This is China: the government always has the last word. While it’s hard not to applaud its decision, the economist is left wondering whether market economy is doomed to keep art between the rock of excessive commercialization and the hard place of insufficient profitability. And this, I am afraid, amounts to saying that art economics – once stripped of explicit and hidden public subsidies and wishful thinking – is a delusional exercise, and that art and market can live in symbiosis in the short run, but when all has been said and done are incompatible.