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Le politiche pubbliche sono conversazioni

Il progetto Visioni Urbane – che apre in questi giorni una nuova fase – mi ha insegnato davvero molto. Il problema che avevamo, in sintesi, era questo: un atto amministrativo obbligava la Regione Basilicata a spendere 4,3 milioni di euro per fare “spazi laboratorio creativi”. Queste risorse erano one-shot e in conto capitale: le spendi all’inizio in struttura (muri, impianti, etc.), poi non ne hai più. Non c’erano risorse di spesa corrente per finanziare le attività. Come evitare che questi spazi laboratorio venissero inaugurati e subito chiusi?

La risposta poteva essere solo “facendo impresa culturale”. Gli spazi dovevano diventare una piattaforma per la produzione, da parte dei creativi lucani, di prodotti e servizi destinati al mercato della cultura, e che fossero in grado di intercettare una domanda pagante. Bene. Ma di cosa si stava parlando? Musica? Cinema? E quale musica, quale cinema? Da vendere a chi? Da produrre come? Da avviare a quali canali di distribuzione? Da comunicare come? E’ stato subito chiaro che il piccolo gruppo di tecnici messi insieme dal DPS e dalla Regione non aveva alcuna speranza di darsi queste risposte da solo. L’unico modo di rispondere a queste domande era fare emergere le soluzioni, mobilitando la conoscenza incorporata nei creativi lucani stessi.

Non si trattava di “fare una ricerca” per estrarre conoscenza dai creativi lucani. La cultura in Basilicata, come spesso in Italia, è in parte preponderante finanziata dal settore pubblico. Il mercato coincide con l’assessore che firma la delibera. I creativi, quindi, non conoscono i mercati, anzi ne hanno paura. Si trattava di avviare un processo che producesse contemporaneamente la consapevolezza del problema (il denaro pubblico per la cultura è poco e inaffidabile) e dell’esistenza delle sue soluzioni (immaginare prodotti che “funzionano”, che “il pubblico vuole”). Percepire solo il problema avrebbe significato produrre nei creativi una reazione di chiusura, mentre noi avevamo bisogno che loro fossero abbastanza ottimisti e avventurosi da fare innovazione.

Per coinvolgere i creativi al massimo abbiamo bisogno di trattarli alla pari, come un soggetto della politica economica, e non come un suo oggetto. Visioni Urbane in quanto policy si è strutturata come una conversazione, proprio alla Cluetrain Manifesto. E una soluzione – articolata, nel merito, assolutamente impensabile all’inizio del processo – è emersa. Da questa esperienza ho scritto un breve saggio in inglese, Policy as conversation, che presenterò a eChallenges 2008, a Stoccolma, il 24 ottobre. Lo trovate qui.

Policy is conversation

The Visioni Urbane project – just now entering a new phase – taught me a lot. Our problem, in a nutshell, was this: a legacy decision bound the Basilicata regional administration to spend €4.3 million to build “creative workspaces”. These funds were to be “one shot” and earmarked for capital expenditure: we were to spend them in bricks-and-mortar at the beginning of the process, and then there would be no more. There were no ongoing resources for activities to take place therein. How to prevent creative workspaces closing doors immediately after their launch?

The answer could only be “by turning to the market”. The workspaces would become a platform for Basilicata creatives to invent, produce and bring to cultural market, products, products that could attract paying customers. Fine. But what products? Film? Music? And which kinds of film and music? Who would be their customers? How to produce them? Through which channels to distribute them? It was crystal clear that the small advisory group put together by the central government and the regional administration had no chance of solving the puzzle on its own. The only way of doing it was to mobilize the fine-grained knowledge embedded in the Basilicata creatives themselves.

The issue was not to “do research” to extract this knowledge form local creatives. Culture in Basilicata is predominantly financed by the public sector, a common situation in Italy. The market coincides with the local politician who greenlights the project. Local creative people, therefore, have almost no experience of markets: they actually tend to be scared of them. We needed a process that would produce at the same time the awareness of both the problem (public sector funding of cultural activities is scarce and unreliable) and the possible solutions (thinking up cultural products that are “hot”, that “people want”). Perception of the problem without its solutions would produce a defensive reaction, whereas we needed creatives to be optimistic and adventurous enough to innovate.

To get creatives fully involved we needed to treat them as equals, as a subject – as opposed to the target – of policy. So we structured Visioni Urbane as a conversation, much in the Cluetrain Manifesto spirit. And a solution – quite sophisticated, hand-on and utterly unconceivable at the beginning of the process – emerged. I tell the tale in a short essay, Policy as conversation,, to be presented at eChallenges 2008, in Stockholm, on October 24th. You can get it here.

Arte e mercato (a Modena)

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Mi sono divertito molto al seminario di Modena, ma credo di avere sovrastimolato parte della platea. Lo dico perché la discussione seguita alla presentazione del paper si è incentrata soprattutto su un aspetto “ideologico”, quello del rapporto tra arte e mercato. Antonella Picchio diceva di essere preoccupata per gli artisti trattati come merce; io ho provato a risponderle che il mercato siamo noi, ma per lei questo significa essere immersi nell’ideologia liberista del mercato come democrazia, dell’acquisto come voto ecc. Antonio Ribba, invece, mi ha chiesto se non penso che comunque l’arte non commerciale vada sostenuta, per evitare “di chiudere il Teatro San Carlo di Napoli”, che non è sostenibile in nessuno scenario a causa del morbo di Baumol.
Provo a chiarire la mia posizione:

  1. il problema del sostegno pubblico all’arte è un problema classico di fallimento del mercato, affrontato con il quadro teorico della microeconomia pubblica. Io di questo so poco, anche se prendo atto del fatto che Peacock [1993] sostenga che non esistono argomenti convincenti a favore dell’idea che lo stato debba sostenere l’arte.
  2. come ha detto Paolo Bosi il mio paper si occupa di un problema totalmente diverso, che è quello dell’uso delle industrie creative come asse di politiche per lo sviluppo economico (più in chiave di competitività nazionale che in chiave di coesione territoriale)
  3. comunque, il mercato visto dal mondo creativo (penso soprattutto alla musica, ma ho provato a fare anche un caso non artistico – ma forse creativo sì – quello di Ducati) non è la cosa che ha in testa Antonella. Mi sembra che sia un po’ finita l’era del consumo culturale passivo, che passa attraverso mezzi di comunicazione di massa ed è spinto da tecniche di persuasione occulta. Quando ero piccolo tutti guardavano Happy Days prima del telegiornale della sera e poi ne parlavano a scuola il giorno dopo: oggi i ragazzi partecipano a gruppi di interesse su internet in cui si interessano di manga giapponesi o di sport esoterici. Oggi, per parafrasare il Cluetrain manifesto, i mercati sono conversazioni umane, e parlano con voce umana. Il mercato del mio gruppo, i Fiamma Fumana, è fatto da gente come me: gente che ama la diversità, i suoni del mondo, le cornamuse, le voci delle mondine e le console dei dj e i loro omologhi mongoli o etiopi, e non ha nessuna voglia di stare dietro all’ennesimo idolo di plastica o al prossimo Grande fratello. E’ gente che rispetto e stimo. Se questa gente compra i miei dischi, mi onora e mi fa oggetto di mecenatismo; se smette di comprarli probabilmente è colpa mia, ho fatto un brutto disco. Nel rapporto con loro trovo la mia libertà artistica: se lo stato mi passasse uno stipendio fisso “perché sono un artista” ma mi impedisse di cercare il rapporto con queste persone non mi farebbe un favore. Anche l’arte è come una conversazione, o come il sesso: si può fare anche da soli, ma non viene altrettanto bene.
  4. l’utopia del Cluetrain manifesto non è più tale, perché la tecnologia ha abbattuto (e talvolta azzerato) i costi di distribuzione dei prodotti creativi; contestualmente ci ha dato il “web sociale”, le comunità come Myspace o Last.fm in cui possiamo ritrovarci con le persone che condividono le nostre stesse passioni e farci contagiare da passioni nuove. L’effetto di questa situazione è che puoi vivere di nicchie: anzi, secondo me succede che i progetti artistici acquisiscono una nuova radicalità, perché l’adesione tiepida e distratta di grandi masse non ti dà reddito (al massimo quelli scaricano i tuoi pezzi da eMule), mentre il sostegno convinto di una piccola minoranza sì.

Si capisce?

PS – Potete scaricare le slides della presentazione o l’intero saggio.