Archivio tag: complexity economics

Perché l’open government sta fallendo (ma alla fine vincerà comunque)

Gli accordi di corridoio e le clientele sono strumenti classici di governo. Molte persone, però, non li amano, e non se ne fidano. Preferiscono una governance aperta e trasparente. Io sono tra queste, e probabilmente anche tu.

Ispirato da questi valori, ho guardato Internet diffondersi su tutto il pianeta, e ho visto un’opportunità. Ho dedicato parecchi anni di lavoro a esplorare come le forme di comunicazione che Internet rendeva via via possibili potessero rendere la democrazia migliore, più intelligente. Gran parte di questo lavoro era pratico. Consisteva di progettare e realizzare progetti di governo aperto (open government), prima in Italia (Kublai, Visioni Urbane), poi in Europa Edgeryders).

Circa dieci anni fa, le poche persone che, in tutto il mondo, lavoravano su questi temi hanno cominciato a entrare in contatto gli uni con gli altri. Abbiamo cominciato a scambiarci esperienze, a riflettere insieme, a costruirci luoghi di incontro. Continuiamo a farlo anche oggi. E c’è una novità: questo dibattito si sta spostando. Non stiamo più parlando degli argomenti che ci appassionavano nel 2009. Se hai a cuore la democrazia, questa è una notizia in parte buona e in parte cattiva, e comunque importante e eccitante.

Alla fine degli anni duemila, pensavamo che Internet avrebbe migliorato il funzionamento della democrazia abbassando i costi di coordinamento tra i cittadini. Questo funzionava in tutti gli ambiti. Rendeva tutto più facile. Trasparenza? Basta mettere le informazioni su un sito, e renderlo rintracciabile dai motori di ricerca. Partecipazione? I sondaggi online costano poco. Collaborazione tra governo e cittadini? Puoi usare wiki e forum online, e  avvantaggiarti dell’ubiquità della Rete per attirarvi le persone che hanno la conoscenza che serve all’azioen di governo. Avevamo la teoria. Avevamo (un po’ di) esperienza pratica. Cavalcavamo l’onda della diffusione inarrestabile di Internet. Con l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti nel 2008, avevamo anche il primo leader globale che sosteneva questi principi, sia a parole che nei fatti. Stavamo vincendo.

Ci aspettavamo di continuare a vincere. Avevamo un vantaggio strategico: il governo aperto non richiedeva un cambiamento culturale per essere messo in pratica. L’adozione delle sue pratiche non era una rivoluzione; era più un retrofit, un innesto di nuova tecnologia senza modificare l’infrastruttura esistente. Per spingerle usavamo parole familiari alla vecchia guardia: trasparenza, accountability, partecipazione. Erano come talismani. I dirigenti pubblici non erano sempre entusiasti di ciò che facevamo, ma non potevano certo dichiararsi apertamente contro questi valori. E, quando i nostri progetti venivano realizzati, causavano il cambiamento culturale. I servitori dello stato imparavano a lavorare in ambienti aperti e collaborativi; era difficile per loro ritornare al controllo dell’informazione e al need to know. Quindi, concludevamo, questa cosa può andare solo in una direzione: verso più Internet nelle pratiche di governo, più trasparenza, partecipazione, collaborazione. Il dibattito rifletteva questa posizione, e veniva riassunto in libri come The Wiki Government  di Beth Noveck'(2009) and il mio Wikicrazia (2010).

Ora è cambiato tutto.

Me ne sono convinto leggendo due libri recenti. Uno è Smart Citizens, Smarter Governance, di Beth Noveck. L’altro è Complexity and the Art of Public Policy, di David Colander e Roland Kupers. Considero questi lavori un progresso rispetto a qualunque cosa sia stata scritta in precedenza.

Beth è un faro per chi si occupa di governo aperto. È stata tra i suoi pionieri, con un progetto che si chiama Peer2Patents. A causa di esso, il presidente Obama l’ha voluta nel suo transition team prima, e alla Casa Bianca più tardi. Ha moltissima esperienza a tutti i livelli, dalla teoria alla realizzazione a alla policy. E ha un messaggio per noi: l’open government sta fallendo. Ecco il passo più significativo:

Nonostante tutto l’entusiasmo per i benefici potenziali di una governance più aperta; il movimento open government ha avuto un impatto davvero modesto sul modo in cui prendiamo decisioni pubbliche, risolviamo problemi e allochiamo beni pubblici.

Perché? La causa immediata più importante è che le pratiche di governo sono scritte nella legge. Cambiare le leggi è difficile, e ha effettivamente bisogno di un cambiamento nella cultura dei legislatori incaricati di riformarle. La causa ultima è ciò che Beth chiama governo professionalizzato. Il ragionamento è questo:

  1. Per prendere decisioni sulla base dell’informazione disponibile, è necessario che quest’ultima sia filtrata, riaggregata, curata. Per fare questo servono esperti.
  2. Come facciamo a capire quando una persona è un esperto? Guardiamo se appartiene a una professione (medico, avvocato, biologo…). L’attività di governo è oggi completamente professionalizzata; solo il parere degli esperti è considerato utile (ma non è sempre stato così, anzi).
  3. Di conseguenza, “aprirsi significa esercitare muscoli civici che si sono atrofizzati”, e considerare i cittadini potenzialmente competenti a contribuire alla progettazione delle politiche pubbliche.
  4. Inoltre, le professioni sono esclusive per definizione. Ogni volta che prendono piede, si muovono per escludere i non-membri da quello che considerano il loro terreno. Oggi, tutte le persone importanti nei governi sono professionisti, e condividono l’idea che i cittadini comuni non hanno competenze utili. Interagendo tra loro, queste persone formano un ambiente di lavoro che rinforza questa loro convinzione. Risultato: “molti omaggi retorici all’idea di engagement, ma poca condivisione vera del potere”.

Oggi diamo per scontato che l’attività di governo sia professionalizzata. La consideriamo una specie di legge di natura. Ma non è così. Nel libro, Beth racconta in dettaglio come il governo si è professionalizzato negli Stati Uniti. All’inizio della loro storia, gli USA sono governati da agricoltori gentiluomini. L’amministrazione era guidata da un corpus di conoscenza chiamata citizen’s literature, che i servitori dello Stato imparano direttamente sul lavoro. Con il tempo, sempre più persone vengono assunte nell’amministrazione pubblica. Questo processo creato e fa crescere in numeri e potere una nuova classe di professionisti del governo – persone che non hanno mai fatto altro nella loro vita, né si aspettano di farlo. Questa classe usa il suo potere per consolidare la propria posizione, rendendo la burocrazia pubblica una professione. Codici di condotta vengono redatti. Le università creano dipartimenti di diritto e scienze sociali, luoghi di addestramento e reclutamento dei burocrati del nuovo tipo. Tutto questo accade in sintonia con un movimento di tutta la società verso la misurazione, la standardizzazione e l’ordine amministrativo.

Beth ritrae questo movimento in un affresco ricco e convincente; è una delle parti del libro che preferisco. Poi, spiega che i nuovi modi di mettere le competenze degli esperti a disposizione dei policy makers sono illegali negli Stati Uniti. Perché? A causa del Paperwork Reduction ActQuesta legge non intendeva vietare la ricerca di esperti via Internet (è del 1995), ma è scritta in modo che la formazione di comitati che consigliano il governo sia strettamente regolamentata e tecnicamente difficile. Ma perché il Paperwork Reduction Act è sembrato necessario? Il legislatore americano stava tentando di proteggere la burocrazia da interferenze e pressioni da parte di coloro che la burocrazia deve regolare. Per fare questo, ha relegato chiunque non sia un professionista del governo al ruolo di rappresentanza degli interessi. Questo vuol dire che i cittadini sono importanti non per quello che sanno, ma per chi rappresentano, per “chi li manda”. È emersa un’architettura di governo professionalizzato che protegge sé stessa, senza bisogno di un architetto.

Architetture senza architetti? Questa è complessità. Il viaggio intellettuale di Beth l’ha portata alle dinamiche dei sistemi complessi. Lei non lo scrive proprio in questi termini, ma è chiaro. Questa storia ha feedback positivi, effetti di lock-in, emergenza. Beth ha dovuto imparare a pensare in termini di sistemi complessi per navigare le politiche pubbliche. La capisco bene, perché la stessa cosa è accaduta a me. Mi sono dovuto insegnare la matematica delle reti come strumento principale per pensare la complessità. E dovevo imparare a pensare la complessità, perché mi occupavo di politiche pubbliche, e quello era l’unico modo di farle funzionare.

L’altro libro che ho citato, quello di David Colander e Roland Kupers, parte direttamente dalla scienza dei sistemi complessi. La sua domanda è: come sarebbero le politche pubbliche se fossero progettate in una prospettiva di sistemi complessi? 

Le risposte sono affascinanti. La polarizzazione “libero mercato contro stato” sparirebbe. Sparirebbe anche il predominio della scienza economica, e le politiche economiche verrebbero considerate parte delle politiche sociali. Lo stato promuoverebbe norme sociali benefiche, così che i cittadini vogliano fare scelte vantaggiose per sé e per gli altri invece di essere costretti a farle dalla legge. Le agenzie governative sarebbero fortemente interdisciplinari. Sperimentazione e reversibilità sarebbero incorporati in tutte le politiche pubbliche.

Colander e Kupers hanno scritto il loro libro senza avere letto quello di Beth, e viceversa. Ma i due libri convergono alla stessa conclusione: fare politiche pubbliche nel ventunesimo secolo è un problema di sistemi complessi. Senza un approccio basato sulla complessità, le politiche falliscono. Condivido questa conclusione. In effetti, ho cominciato a studiare scienze della complessità nel 2009. Negli ultimi quatto anni ho approfondito in particolare la scienza delle reti. L’ho fatto perché anch’io progettavo politiche pubbliche; dovevo districarmi in situazioni intricate, e il potere esplicativo del pensiero della complessità era evidente. Nei primi anni il mio percorso è stato molto solitario: oggi sono sollevato e orgoglioso di trovarmi sullo stesso sentiero di gente intelligente come Beth, Colander e Kupers.

Ma c’è ancora un pezzo mancante. Pensare in termini di sistemi complessi ci aiuta a capire perché le politiche pubbliche non funzionano. Non sono ancora convinto che ci aiuti a farle funzionare davvero. Questo tipo di scienza ha funzionato bene nelle scienze naturali. La fisica e la biologia cercano di capire la natura, non di cambiarla. Non c’è policy qui. La natura non fa errori.

Quindi, capire un fenomeno in profondità significa rispettarlo, almeno in parte. Prova a indicare un problema sociale a uno studioso di sistemi complessi, per esempio la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Ti mostrerà la legge di potenza della distribuzione; lo spiegherà con una dinamica di feedback positivo, tipo success breeds success; aggiungerà che questo succede molto spesso in natura; e descriverà quanto è difficile allontanare un sistema complesso dal suo attrattore. Il pensiero della complessità funziona benissimo per individuare in anticipo politiche inefficaci e controproducenti. Per ora, non ha funzionato altrettanto bene a individuare cosa possiamo fare che, invece, sia efficace.

Gli autori di entrambi i libri hanno dei suggerimenti per i policy makers. Ma non sono particolarmente convincenti. 

La soluzione principale di Beth è una specie di database ricercabile per esperti. Un policy maker che ha bisogno di competenze potrebbe scrivere, per esempio, “open data” in un campo di ricerca, e connettersi con persone che sanno molte cose sugli open data. Questo dovrebbe funzionare bene per i problemi ben definiti, in cui il policy maker sa con certezza dove cercare una soluzione. Ma molti problemi di policy interessanti non sono affatto ben definiti. L’inquinamento atmosferico in città è un problema tecnologico? Allora dovremmo intervenire sul settore automobilistico per fargli produrre auto meno inquinanti. O è un problema di pianificazione urbana? Occorre modificare il piano regolatore, avvicinando i luoghi di lavoro a quelli di residenza per ridurre il pendolarismo. Un problema di organizzazione del lavoro, forse? Dovremmo incoraggiare i datori di lavoro a eliminare i loro uffici e dare ai dipendenti strumenti software perché possano lavorare da casa? Un momento, forse è un problema di mode: potremmo usare il marketing per rendere le biciclette più popolari. Nessuno lo sa. Probabilmente il problema è tutte queste cose, più chissà quante altre. Non è affatto chiaro a priori che tipo di esperto ti serve, tanto più che ogni mossa che fai in una delle dimensioni del problema influenzerà le altre.

Non è ancora finita, Le categorie stesse in cui raggruppare gli esperti sono socialmente determinate, e in continua trasformazione. Puoi immaginare un policy maker che cerca un esperto in  open data nel 1996? No, perché il concetto non esisteva. Il database di Beth può, oggi, aiutarci a trovare esperti in open data solo perché qualcuno ha ricombinato le componenti di ciò che oggi chiamiamo open data (tecnologie, standard, licenze etc.) in un modo nuovo, che risolveva certi problemi. Questo ha funzionato così bene che ha ricevuto un’etichetta, appunto open data, che oggi potete mettere nel vostro CV in modo che una ricerca nel database di Beth vi trovi. Quindi, la soluzione di Beth può trovare esperti di discipline già codificate, ma non quelli delle soluzioni in via di codificazione; ma sono questi ultimi quelli che contano, quelli che stanno sulla frontiera dell’innovazione.

Colander e Kupers hanno le proprie soluzioni, come racconto sopra. Sono soluzioni brillanti e sensatissime. Sono anche in netta rottura con il modo in cui il governo funziona oggi. È improbabile che emergano per caso. Chiunque abbia provato a fare innovazione in un’amministrazione pubblica sa quanto sia difficile fare passare qualunque cambiamento, anche piccolo. Come funzionerebbe la riprogettazione radicale auspicata da Colander e Kupers? Per diktat di qualche leader visionario? Possibile, ma ricorda: la modalità attuale di funzionamento della macchina governativa è emersa (“architettura senza architetti”). Entrambi i libri offrono resoconti sofisticati di questo emergere. Con tutta l’ammirazione che ho per i loro autori, mi pare incoerente che propongano, invece, una soluzione imposta dall’alto.

Quindi, dove vanno le politiche pubbliche del ventunesimo secolo? Al momento, non vedo alternative ad abbracciare il pensiero della complessità. È molto forte nell’analisi, e una volta che cominci a vedere le cose in questi termini è impossibile smettere di vederle. Inoltre, fornisce soluzioni implementabili localmente. Per esempio, in certi casi puoi convincere lo stato a fare cose coraggiose e innovative in via sperimentale, e sperare che quello che succede nell’esperimento venga imitato. Per ora, questo dovrà bastarci. Ma va bene così. L’età dell’innocenza è finita: oggi sappiamo che non c’è nessuna soluzione facile e veloce. Forse un giorno avremo soluzioni sistemiche non velleitarie: se mai ci arriveremo, è probabile che Beth Noveck, David Colander e Roland Kupers siano i primi a trovarle.

Photo credit: Cathy Davey on flickr.com

Cosa vuol dire “smart” in “smart cities”?

Si parla moltissimo di smart cities. Per questa grande attenzione ci sono, a mio parere, due motivi.

Il primo è strutturale: le città sono il nostro futuro come specie. Già ora, e per la prima volta nella storia dell’umanità, oltre metà della popolazione mondiale vive in città. Ogni settimana, 1.3 milioni di persone si trasferiscono  in città dalle campagne del pianeta Terra. Ha molto senso che applichiamo la nostra intelligenza al nostro habitat numero uno.

Il secondo è contingente: il Governo ha messo sul piatto oltre 600 milioni di euro per progetti di ricerca e intervento volti a “risolvere problemi di scala urbana e metropolitana” in ambiti come sicurezza, invecchiamento, tecnologie per il welfare, domotica, smart grids eccetera.

L’interferenza tra i due fa sì che l’espressione “smart cities” venga intesa nei modi più diversi. Semplificando un po’, ma neanche troppo, le proposte più importanti sono due. La prima (anche nel senso che è stata la prima in ordine di tempo) è associata ad alcune grandi imprese: IBM, Cisco, ma anche Google con progetti come Latitude. L’idea è quella di usare sensori collegati in rete per aumentare la densità del flusso di informazioni che le città ci passano, adattandovi i nostri comportamenti e usandolo per riprogettare e migliorare i luoghi in cui viviamo. La riprogettazione doterà il territorio di nuove infrastrutture, ad esempio: le colonnine per la ricarica delle batterie delle auto elettriche, a loro volta collegate a nuovi sensori. I sensori più importanti sono a bordo dei nostri smartphone, che riversano in continuazione in grandi basi dati informazioni sul mondo che ci circonda. Al centro di questa visione stanno tecnologie e interdipendenza: il suo simbolo è la famosa Copenhagen Wheel del MIT.

La seconda proposta è associata alla cultura hacker e al mondo dell’innovazione sociale. L’idea è quella di riprogettare le città per renderle più comode, semplici, sostenibili anche economicamente. Qualche volta questo implicherà l’introduzione di tecnologie più avanzate di quelle attuali (per esempio il microsolare, illuminazione pubblica a LED); altre volte spingerà soluzioni low tech (la bicicletta, l’agricoltura urbana). Al centro di questa visione stanno relazioni sociali, costruzione di comunità e consapevolezza della fragilità dell’ambiente naturale che circonda le città costruite da homo sapiens. Il suo simbolo è la Ciclofficina.

La prima proposta schiera tecnologie avanzate, design curato, ricercatori di riconosciuta eccellenza. Tutti i pezzi, presi singolarmente, sono smart. Eppure accade una cosa strana: una volta messe insieme, le parti danno vita a un intero (la città) che a me non pare smart per niente. Prendete le auto elettriche. Sono silenziose e non emettono gas di scarico. Ma:

  • l’energia elettrica con cui ricaricarle deve venire prodotta in qualche modo. In un mondo in cui le sorgenti idroelettriche sono già sostanzialmente sfruttate e il nucleare è politicamente inaccessibile, aggiungere potenza installata vuole dire bruciare idrocarburi. Le emissioni delle auto, quindi, non vengono eliminate, ma solo spostate. Le emissioni possono diminuire o aumentare a seconda delle caratteristiche delle centrali esistenti e della rete; le centrali a idrocarburi disperdono in calore il 50% dell’energia derivante dalla combustione; un altro 5% viene disperso nella rete elettrica durante il trasporto (fonte). Dunque, di 100 KW imprigionati nel gasolio, solo 45 arrivano alla batteria dell’auto elettrica.
  • richiedono una costosa infrastruttura.
  • le auto elettriche sono auto: ripropongono l’idea che occorre associare a ogni essere umano una scatola di latta di quattro metri per uno e mezzo per uno, che viene usata in media un’ora al giorno e occupa prezioso territorio urbano per le altre ventitré. Quindi non risolvono i problemi di mobilità – anzi, li aggravano, visto che possono entrare nelle zone a traffico limitato.
  • sono una tecnologia non permissiva. Non puoi modificarle, non puoi caricarle in altro modo che non collegandoti alla rete elettrica. Ci confinano in ruolo passivo – lo stesso che abbiamo con le auto a combustione interna.

Prendiamo, invece, una soluzione alla mobilità apparentemente meno innovativa: le congestion charges, cioè quei provvedimenti che obbligano chi accede in auto al centro cittadino a pagare una tariffa. L’esempio italiano più noto è quello dell’Area C del Comune di Milano. I risultati di Area C parlano da soli: riduzione degli ingressi del 34% (49% per i mezzi più inquinanti), aumento della velocità commerciale dei mezzi pubblici del 5%; riduzione degli incidenti stradali del 24% dei ferimenti del 24%; riduzione dei principali agenti inquinanti dal 15% al 23% (fonte).

Ma il più grande vantaggio di Area C, a ben vedere, è che crea spazio invece di occuparlo. In prospettiva, rende disponibili le vie del centro come piattaforma per l’interazione sociale, il gioco, il commercio, la ristorazione, l’innovazione negli stili di vita. Non dovendo dedicare la maggior parte della loro superficie alle auto, veloci e pericolose, le persone possono provare a spostarsi con le biciclette, i rollerblade, di corsa. Hobbyisti di talento e artigiani della meccanica possono dare vita a nuovi ecosistemi attorno alla mobilità urbana leggera: nei paesi che hanno già fatto questa transizione si vedono biciclette con trailers, biciclette con pianali di carico per il piccolo trasporto merci. Si vedono bambini che possono andare a scuola da soli, liberi dalla minaccia delle auto.

Quindi, cosa vuol dire smart in smart city? Le due visioni che ho provato a raccontarvi si non sono chiaramente distinte nel dibattito corrente. A me, però, sembra che siano non solo diverse, ma contrapposte. La smart city del primo tipo ha una vocazione centralista: tutta l’intelligenza è concentrata nei tecnologi delle imprese e delle università, e ai cittadini resta il ruolo di consumatori dei vari gadget. Quella del secondo tipo guarda alla decentralizzazione spinta: crea spazio, e promuove la creatività di tutti. La smart city del primo tipo usa algoritmi di profilazione e il tuo smartphone per segnalarti che sei vicino a un negozio che vende abiti del tuo stilista preferito. Quella del secondo tipo è piena di gruppi di acquisto solidale, orti urbani, sewing café, hackerspace, fablab. La smart city del primo tipo fa grandi investimenti in telefonia cellulare ultraveloce. Quella del secondo tipo evoca quasi dal nulla reti wi-fi cittadine utilizzando come hotspot i router delle nostre case, dei bar, delle biblioteche (come fa a Milano GreenGeek). Nella smart city del primo tipo gli studenti vanno a scuola con i tablet. In quella del secondo tipo usano materiali didattici in creative commons – e probabilmente possono scegliere se ascoltare la lezione dal loro professore in aula o dalla Khan Academy o OilProject in video. La smart city del primo tipo delega le attività produttive (agricoltura, industria, finanza) a grandi imprese strutturate per sfruttare i vantaggi di scala. Quella del secondo tipo le distribuisce, almeno in parte, tra tante piccole esperienze: permacoltori, makers, community lending.

Si sarà capito che io trovo molto più smart e più moderna l’idea di decentrare. Ma c’è un problema: quasi tutto quello che è smart in questo senso riduce il PIL. Se i mezzi pubblici funzionano meglio, più gente li usa: il traffico si riduce, ma si riduce anche il consumo di automobili e di benzina. Se le persone fanno più sport e si ammalano di meno il PIL si riduce (la sanità è un business immenso). L’AreaC, riducendo gli incidenti stradali, riduce il PIL, riducendo il ricorso a medici, fisioterapisti, carrozzieri. Le smart cities del primo tipo non hanno questo problema: la Copenhagen Wheel costa 600 dollari, e per funzionare richiede anche un iPhone (oltre alla bicicletta), tanto che il Guardian si è chiesto cosa ci fosse di smart nel mettere oltre mille euro di elettronica sofisticata su una bicicletta, un oggetto facile da rubare.

La scelta di centralizzazione piace molto alle imprese. È comprensibile, perché consegna loro una forte centralità e modalità chiare per monetizzare. Non ho dubbi che saranno loro le protagoniste nella vicenda del famoso bando dal governo. Eppure, ho l’impressione che negli ultimi mesi si cominci a sentire anche la voce dei sostenitori di soluzioni decentralizzate – che viene, come al solito, dal più decentralizzato dei luoghi, cioè da Internet.

L’aspetto affascinante della discussione sulle smart cities è che ci costringono a farci le domande che contano davvero. Cosa misura davvero il PIL? Cos’è veramente questa crescita che cerchiamo di stimolare? Come vogliamo vivere insieme nelle nostre città? Comunque andrà a finire, spero che ci prenderemo il tempo e le energie mentali per andare a fondo della discussione. Non capita tutti i giorni di prendere decisioni collettive così ad ampio raggio, che ci costringono a chiederci davvero cosa vogliamo, e come vogliamo vivere insieme. Per cogliere pienamente questa occasione, spero che i primi sensori delle nuove smart cities saranno sensori di ascolto della voce dei cittadini (e intendo gli individui, non solo gli stakeholders); e che le loro prime tecnologie abilitanti siano ambienti accoglienti e orientati all’argomentazione razionale, collocati sia online che offline, in cui prendere insieme le decisioni del caso. Il primo spazio da decentralizzare è proprio quello della decisione pubblica, dove la decentralizzazione si chiama democrazia.

Camminando sul filo: network science, comunità online e democrazia

Sabato ho partecipato a TEDx Bologna. Invece di andare sul sicuro, dedicandola ai temi sviluppati in Wikicrazia, ho dedicato la mia presentazione a una connessione che sto ancora esplorando, e che trovo assolutamente affascinante. Mi sto chiedendo se possiamo:

  1. usare la scienza delle reti per dare un indirizzo alle dinamiche sociali delle comunità online (come?). Spingerle a discutere dei problemi che ci stanno a cuore, usare certi linguaggi, applicare certe regole. Possiamo usare le comunità online aperte come strumenti di analisi e progettazione di soluzioni a problemi collettivi, come se fossero computers fatti di persone?
  2. collocare queste comunità online nel quadro della legittimità democratica, usandole come luoghi aperti in cui i cittadini possono partecipare all’analisi di problemi comuni e alla progettazione di soluzioni. Legittimità, in questo contesto, vuol dire che queste comunità devono essere partecipate, e in qualche modo guidate, da istituzioni democraticamente elette.

Chi partecipa a queste comunità (come Kublai, o Edgeryders) accetta uno scambio: l’interazione non è totalmente libera, ma direzionata (per esempio, questi luoghi non sono il posto giusto per postare foto di gatti), ma in cambio la discussione si svolge vicino ai decisori pubblici e con la loro partecipazione. Quindi, esse possono fare promesse credibili – attentamente circoscritte e realistiche – del tipo: “in cambio del vostro impegno, ottenete di influire sulle decisioni che prendiamo, in nome del popolo e dell’interesse comune.”

Mi rendo conto che è un salto mortale: dalla network science alla democrazia partecipativa, passando per le comunità online. Spero di atterrare in piedi. Il video del talk arriverà tra un mese. L’immagine qui sotto è un’anticipazione.