Da qualche mese mi sono stabilito a Dergano, un quartiere di Milano nord. E’ un posto assolutamente straordinario, tanto che faccio perfino fatica a descriverlo. “Non sembra di essere a Milano” ci ripetiamo Vanessa e io. L’impressione, infatti, è quella di essere in un piccolo paese italiano, e non di adesso, ma dei primi anni 70. Ci sono due botteghe di fabbro. Ci sono i negozi di ferramenta con i muri completamente occupati da piccoli cassetti in legno scuro per viti e chiodi di varie dimensioni. Ci sono le trattorie dove gli operai in tuta vanno a pranzo. La mia preferita è “da Amilcare”: ha l’insegna in bachelite e serve piatti d’altri tempi come consommé in tazza (un euro e ottanta) e maccheroni con ragù (due euro e dieci). Ci sono gli anziani che se la raccontano ai giardinetti. C’è una sezione del PD incredibilmente aperta tutte le domeniche (domenica un signore mi ha fermato per vendermi L’Unità: ovviamente l’ho comprata, commosso. Nostalgia canaglia). Fanno una festa di quartiere che dura dieci giorni, interamente basata sul volontariato. E’ evidente la vocazione produttiva del quartiere: ciminiere, gasometri, rotaie. Tutta questa roba in Emilia ce la sogniamo, è scomparsa da venticinque anni.
Ma è chiaro che la similitudine con il paese emiliano anni 70 è incompleta. Dergano è stato comune fino al 1868, ma ora è parte della zona 9 di Milano, che comprende anche Isola, Bovisa, Niguarda, Affori e Bruzzano e mette insieme 194mila e passa abitanti. Ci sono 26mila stranieri residenti, di tutti i continenti e di tutte le culture: quattromila egiziani, altrettanti cinesi, oltre tremila filippini, duemila ecuadoregni abbondanti, altrettanti peruviani, milleseicento cingalesi, ottocento rumeni, altrettanti marocchini e albanesi, seicento bengalesi. Ci sono templi di tutte le religioni principali: la chiesa cattolica di San Nicola Vescovo (il santo che ha fatto carriera come Babbo Natale) dalle formidabili campane in bronzo; la famosa moschea di Viale Jenner; la sala del regno dei Testimoni di Geova in via Monte San Genesio; e in via Manzotti, proprio nel mio palazzo, la chiesa evangelica, che il sabato si riempie di neri elegantissimi nel vestito della festa, e li senti cantare. C’è il bar di Mario e Gio (lui ex pilota da corsa, lei ex fioraia e oggi artista) sempre pronto ad accogliere noi profughi delle notti milanesi. C’è una bellissima biblioteca con un giardino di lettura, una sala multimedia pensata per l’accesso ai disabili, e una collezione di libri in lingua cinese (!). Ci sono grandi e coloratissimi murales “resistenti”. Ci sono le ronde padane (ma la zona 9 è l’unica a maggioranza di centrosinistra). Ci passa la linea 3 della metropolitana, e prima dell’Expo dovrebbe arrivare anche la linea 6. C’è il Politecnico, nella confinante Bovisa. Ci sono le prime battute di un nuovo movimento di immigrazione, da parte di giovani professionisti e aziende in cerca di spazio (relativamente) a buon mercato: per esempio la Universal, mia ex casa discografica, si è trasferita in via Imbonati.
Siamo in città, eccome. Della città abbiamo la vitalità pazzesca, lo stratificarsi e il ricombinarsi delle storie individuali che dà origine a uno “spirito del luogo” diverso da tutti gli altri, come nella Belleville di Daniel Pennac. Stamattina una signora anziana si è fermata a fare un complimento a una giovane egiziana in caftano candido e foulard sui capelli: “Come sei bella! Come ti sta bene! Ha visto, signore, come sta bene?”. Mi piace Dergano, è un laboratorio e ha futuro. Noi che viviamo qui abbiamo il diritto e il dovere di raccontarla, per non lasciare tutto il campo alla solita informazione italiana, ai suoi luoghi comuni e alla sua negatività.