Il rapporto 2011 sui giovani del mondo della Fondation pour l’innovation politique contiene il grafico riprodotto qui sopra. I sondaggi di opinione vanno presi con molta cautela (le persone tendono a mentire nelle risposte), ma fa una certa impressione. C’è stato uno scambio completo di ruoli: dieci anni fa l’establishment era a favore della globalizzazione e i giovani protestavano. Oggi l’establishment sembra a disagio e i giovani sono a favore. Cosa succede?
Forse Joseph Stiglitz è stato profetico nel suo libro del 2001: la globalizzazione è stata gestita male, ma è un fenomeno generalmente benefico, perché fornisce opportunità prima impensabili. I giovani nel mondo – e soprattutto nel mondo in via di sviluppo – stanno semplicemente riconoscendo i suoi benefici.
Eppure ci potrebbe essere un’altra spiegazione, più inquietante: che i giovani (soprattutto quelli più istruiti) stiano decidendo di essere leali più verso i loro coetanei ovunque nel mondo che verso i loro paesi di origine, sempre meno in grado di dare loro una vita attiva e felice, e sempre meno interessati a farlo. L’economia e la società globalizzate sono il luogo dove questi giovani trovano le loro opportunità: da che parte staranno se se esse entrano in conflitto con i vecchi stati-nazione?
La crisi finanziaria ha riaperto gli orizzonti del dibattito sulla politica economica. Pressati dalle rispettive opinioni pubbliche, i leaders mondiali hanno bisogno di nuove idee, e in fretta. Nonostante questo, a prima vista può sorprendere che la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicholas Sarkozy abbiano rispolverato l’idea di una tassa sulle transazioni finanziarie. Adesso i giornalisti la chiamano Robin Hood tax, ma negli anni 90 si chiamava Tobin tax ed era parte dell’arsenale teorico del movimento anti-globalizzazione. Non era nuova nemmeno allora: era stata proposta (in una forma riferita alle transazioni di valuta estera) dal premio Nobel per l’economia James Tobin nel 1972.
L’idea è tassare con un’aliquota molto bassa (0,01-0,05%) le vendite di attività finanziarie (azioni e/o bonds e derivati). L’aliquota è troppo bassa per scoraggiare lo spostamento di capitali da attività che hanno un rendimento strutturalmente basso ad attività che ne hanno uno strutturalmente più alto (per esempio da azioni di un’azienda decotta ad azioni di un’azienda molto redditizia), perché questo spostamento avviene una volta sola e il costo della tassa viene rapidamente riassorbito dai maggiori rendimenti: in questo modo, il mercato mantiene le sue proprietà di efficienza. Ma un’aliquota così è comunque abbastanza alta per scoraggiare la speculazione, che si basa sul comprare e rivendere rapidamente le stesse attività.
Il principale problema pratico della Tobin tax è che, a meno che non venga introdotta simultaneamente in tutto il mondo, la speculazione può eluderla semplicemente spostandosi in un mercato finanziario dove essa è assente. In effetti, alcune varianti di Tobin Tax sono state sperimentate in Svezia negli anni 80. Risultati: gettito basso, diminuzione secca del volume di compravendite e successiva migrazione di molti dei titoli più attivi dalla borsa di Stoccolma a quella di Londra. La tassa è stata successivamente abolita. Quindi non funziona, giusto? Perché ritirarla fuori adesso?
Beh, non è così semplice. Probabilmente non funziona se il suo obiettivo è quello di bloccare la speculazione e generare gettito fiscale. Ma potrebbe funzionare molto bene per un obiettivo diverso: allontanare dal paese le frange del settore finanzario che generano più instabilità (e che su questa guadagnano, come ci ricorda Nicholas Taleb). Il loro abbandono può essere doloroso: si tratta di contribuenti molto ricchi, che si suppone portino benessere. Ma potrebbe anche essere una liberazione, perché il settore finanziario è diventato molto potente politicamente: questo (1) rende molto difficile fare politica economica, perché i super-ricchi bloccano qualsiasi manovra che non contenga benefici per loro (lo sostiene autorevolmente Joseph Stiglitz); (2) introduce disuguaglianza sociale, esasperando il 99% non privilegiato della popolazione; e infine (3) ormai non è più nemmeno chiaro che i super-ricchi portano benessere. Sicuramente non pagano molte tasse: Warren Buffett ha recentemente dichiarato di pagare un’aliquota più bassa di quella della sua donna delle pulizie.
Insomma, forse stiamo assistendo a uno spostamento culturale. Intendiamoci, l’uomo della strada non si è mai fidato della finanza, e non l’ha mai capita. La novità è vedere due leader mondiali del calibro di Merkel e Sarkozy allinearsi con gente come il fiscalista e blogger progressista Richard Murphy (con la benedizione del Guardian), che ha applaudito l’iniziativa franco-tedesca come “una mossa necessaria per riportare sotto controllo la finanza inselvatichita”. Negli anni 90 i militanti di Attac, che manifestavano per la Tobin tax durante gli incontri del G8, venivano trattati come un disturbo dalle polizie di tutti gli stati: c’è una bella differenza!
Sono tentato di leggere questa storia come uno scontro finale tra due principi ordinatori alternativi, gli Stati nazionali e la finanza globale. Mi sto lasciando suggestionare?