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Perché l’open government sta fallendo (ma alla fine vincerà comunque)

Gli accordi di corridoio e le clientele sono strumenti classici di governo. Molte persone, però, non li amano, e non se ne fidano. Preferiscono una governance aperta e trasparente. Io sono tra queste, e probabilmente anche tu.

Ispirato da questi valori, ho guardato Internet diffondersi su tutto il pianeta, e ho visto un’opportunità. Ho dedicato parecchi anni di lavoro a esplorare come le forme di comunicazione che Internet rendeva via via possibili potessero rendere la democrazia migliore, più intelligente. Gran parte di questo lavoro era pratico. Consisteva di progettare e realizzare progetti di governo aperto (open government), prima in Italia (Kublai, Visioni Urbane), poi in Europa Edgeryders).

Circa dieci anni fa, le poche persone che, in tutto il mondo, lavoravano su questi temi hanno cominciato a entrare in contatto gli uni con gli altri. Abbiamo cominciato a scambiarci esperienze, a riflettere insieme, a costruirci luoghi di incontro. Continuiamo a farlo anche oggi. E c’è una novità: questo dibattito si sta spostando. Non stiamo più parlando degli argomenti che ci appassionavano nel 2009. Se hai a cuore la democrazia, questa è una notizia in parte buona e in parte cattiva, e comunque importante e eccitante.

Alla fine degli anni duemila, pensavamo che Internet avrebbe migliorato il funzionamento della democrazia abbassando i costi di coordinamento tra i cittadini. Questo funzionava in tutti gli ambiti. Rendeva tutto più facile. Trasparenza? Basta mettere le informazioni su un sito, e renderlo rintracciabile dai motori di ricerca. Partecipazione? I sondaggi online costano poco. Collaborazione tra governo e cittadini? Puoi usare wiki e forum online, e  avvantaggiarti dell’ubiquità della Rete per attirarvi le persone che hanno la conoscenza che serve all’azioen di governo. Avevamo la teoria. Avevamo (un po’ di) esperienza pratica. Cavalcavamo l’onda della diffusione inarrestabile di Internet. Con l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti nel 2008, avevamo anche il primo leader globale che sosteneva questi principi, sia a parole che nei fatti. Stavamo vincendo.

Ci aspettavamo di continuare a vincere. Avevamo un vantaggio strategico: il governo aperto non richiedeva un cambiamento culturale per essere messo in pratica. L’adozione delle sue pratiche non era una rivoluzione; era più un retrofit, un innesto di nuova tecnologia senza modificare l’infrastruttura esistente. Per spingerle usavamo parole familiari alla vecchia guardia: trasparenza, accountability, partecipazione. Erano come talismani. I dirigenti pubblici non erano sempre entusiasti di ciò che facevamo, ma non potevano certo dichiararsi apertamente contro questi valori. E, quando i nostri progetti venivano realizzati, causavano il cambiamento culturale. I servitori dello stato imparavano a lavorare in ambienti aperti e collaborativi; era difficile per loro ritornare al controllo dell’informazione e al need to know. Quindi, concludevamo, questa cosa può andare solo in una direzione: verso più Internet nelle pratiche di governo, più trasparenza, partecipazione, collaborazione. Il dibattito rifletteva questa posizione, e veniva riassunto in libri come The Wiki Government  di Beth Noveck'(2009) and il mio Wikicrazia (2010).

Ora è cambiato tutto.

Me ne sono convinto leggendo due libri recenti. Uno è Smart Citizens, Smarter Governance, di Beth Noveck. L’altro è Complexity and the Art of Public Policy, di David Colander e Roland Kupers. Considero questi lavori un progresso rispetto a qualunque cosa sia stata scritta in precedenza.

Beth è un faro per chi si occupa di governo aperto. È stata tra i suoi pionieri, con un progetto che si chiama Peer2Patents. A causa di esso, il presidente Obama l’ha voluta nel suo transition team prima, e alla Casa Bianca più tardi. Ha moltissima esperienza a tutti i livelli, dalla teoria alla realizzazione a alla policy. E ha un messaggio per noi: l’open government sta fallendo. Ecco il passo più significativo:

Nonostante tutto l’entusiasmo per i benefici potenziali di una governance più aperta; il movimento open government ha avuto un impatto davvero modesto sul modo in cui prendiamo decisioni pubbliche, risolviamo problemi e allochiamo beni pubblici.

Perché? La causa immediata più importante è che le pratiche di governo sono scritte nella legge. Cambiare le leggi è difficile, e ha effettivamente bisogno di un cambiamento nella cultura dei legislatori incaricati di riformarle. La causa ultima è ciò che Beth chiama governo professionalizzato. Il ragionamento è questo:

  1. Per prendere decisioni sulla base dell’informazione disponibile, è necessario che quest’ultima sia filtrata, riaggregata, curata. Per fare questo servono esperti.
  2. Come facciamo a capire quando una persona è un esperto? Guardiamo se appartiene a una professione (medico, avvocato, biologo…). L’attività di governo è oggi completamente professionalizzata; solo il parere degli esperti è considerato utile (ma non è sempre stato così, anzi).
  3. Di conseguenza, “aprirsi significa esercitare muscoli civici che si sono atrofizzati”, e considerare i cittadini potenzialmente competenti a contribuire alla progettazione delle politiche pubbliche.
  4. Inoltre, le professioni sono esclusive per definizione. Ogni volta che prendono piede, si muovono per escludere i non-membri da quello che considerano il loro terreno. Oggi, tutte le persone importanti nei governi sono professionisti, e condividono l’idea che i cittadini comuni non hanno competenze utili. Interagendo tra loro, queste persone formano un ambiente di lavoro che rinforza questa loro convinzione. Risultato: “molti omaggi retorici all’idea di engagement, ma poca condivisione vera del potere”.

Oggi diamo per scontato che l’attività di governo sia professionalizzata. La consideriamo una specie di legge di natura. Ma non è così. Nel libro, Beth racconta in dettaglio come il governo si è professionalizzato negli Stati Uniti. All’inizio della loro storia, gli USA sono governati da agricoltori gentiluomini. L’amministrazione era guidata da un corpus di conoscenza chiamata citizen’s literature, che i servitori dello Stato imparano direttamente sul lavoro. Con il tempo, sempre più persone vengono assunte nell’amministrazione pubblica. Questo processo creato e fa crescere in numeri e potere una nuova classe di professionisti del governo – persone che non hanno mai fatto altro nella loro vita, né si aspettano di farlo. Questa classe usa il suo potere per consolidare la propria posizione, rendendo la burocrazia pubblica una professione. Codici di condotta vengono redatti. Le università creano dipartimenti di diritto e scienze sociali, luoghi di addestramento e reclutamento dei burocrati del nuovo tipo. Tutto questo accade in sintonia con un movimento di tutta la società verso la misurazione, la standardizzazione e l’ordine amministrativo.

Beth ritrae questo movimento in un affresco ricco e convincente; è una delle parti del libro che preferisco. Poi, spiega che i nuovi modi di mettere le competenze degli esperti a disposizione dei policy makers sono illegali negli Stati Uniti. Perché? A causa del Paperwork Reduction ActQuesta legge non intendeva vietare la ricerca di esperti via Internet (è del 1995), ma è scritta in modo che la formazione di comitati che consigliano il governo sia strettamente regolamentata e tecnicamente difficile. Ma perché il Paperwork Reduction Act è sembrato necessario? Il legislatore americano stava tentando di proteggere la burocrazia da interferenze e pressioni da parte di coloro che la burocrazia deve regolare. Per fare questo, ha relegato chiunque non sia un professionista del governo al ruolo di rappresentanza degli interessi. Questo vuol dire che i cittadini sono importanti non per quello che sanno, ma per chi rappresentano, per “chi li manda”. È emersa un’architettura di governo professionalizzato che protegge sé stessa, senza bisogno di un architetto.

Architetture senza architetti? Questa è complessità. Il viaggio intellettuale di Beth l’ha portata alle dinamiche dei sistemi complessi. Lei non lo scrive proprio in questi termini, ma è chiaro. Questa storia ha feedback positivi, effetti di lock-in, emergenza. Beth ha dovuto imparare a pensare in termini di sistemi complessi per navigare le politiche pubbliche. La capisco bene, perché la stessa cosa è accaduta a me. Mi sono dovuto insegnare la matematica delle reti come strumento principale per pensare la complessità. E dovevo imparare a pensare la complessità, perché mi occupavo di politiche pubbliche, e quello era l’unico modo di farle funzionare.

L’altro libro che ho citato, quello di David Colander e Roland Kupers, parte direttamente dalla scienza dei sistemi complessi. La sua domanda è: come sarebbero le politche pubbliche se fossero progettate in una prospettiva di sistemi complessi? 

Le risposte sono affascinanti. La polarizzazione “libero mercato contro stato” sparirebbe. Sparirebbe anche il predominio della scienza economica, e le politiche economiche verrebbero considerate parte delle politiche sociali. Lo stato promuoverebbe norme sociali benefiche, così che i cittadini vogliano fare scelte vantaggiose per sé e per gli altri invece di essere costretti a farle dalla legge. Le agenzie governative sarebbero fortemente interdisciplinari. Sperimentazione e reversibilità sarebbero incorporati in tutte le politiche pubbliche.

Colander e Kupers hanno scritto il loro libro senza avere letto quello di Beth, e viceversa. Ma i due libri convergono alla stessa conclusione: fare politiche pubbliche nel ventunesimo secolo è un problema di sistemi complessi. Senza un approccio basato sulla complessità, le politiche falliscono. Condivido questa conclusione. In effetti, ho cominciato a studiare scienze della complessità nel 2009. Negli ultimi quatto anni ho approfondito in particolare la scienza delle reti. L’ho fatto perché anch’io progettavo politiche pubbliche; dovevo districarmi in situazioni intricate, e il potere esplicativo del pensiero della complessità era evidente. Nei primi anni il mio percorso è stato molto solitario: oggi sono sollevato e orgoglioso di trovarmi sullo stesso sentiero di gente intelligente come Beth, Colander e Kupers.

Ma c’è ancora un pezzo mancante. Pensare in termini di sistemi complessi ci aiuta a capire perché le politiche pubbliche non funzionano. Non sono ancora convinto che ci aiuti a farle funzionare davvero. Questo tipo di scienza ha funzionato bene nelle scienze naturali. La fisica e la biologia cercano di capire la natura, non di cambiarla. Non c’è policy qui. La natura non fa errori.

Quindi, capire un fenomeno in profondità significa rispettarlo, almeno in parte. Prova a indicare un problema sociale a uno studioso di sistemi complessi, per esempio la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Ti mostrerà la legge di potenza della distribuzione; lo spiegherà con una dinamica di feedback positivo, tipo success breeds success; aggiungerà che questo succede molto spesso in natura; e descriverà quanto è difficile allontanare un sistema complesso dal suo attrattore. Il pensiero della complessità funziona benissimo per individuare in anticipo politiche inefficaci e controproducenti. Per ora, non ha funzionato altrettanto bene a individuare cosa possiamo fare che, invece, sia efficace.

Gli autori di entrambi i libri hanno dei suggerimenti per i policy makers. Ma non sono particolarmente convincenti. 

La soluzione principale di Beth è una specie di database ricercabile per esperti. Un policy maker che ha bisogno di competenze potrebbe scrivere, per esempio, “open data” in un campo di ricerca, e connettersi con persone che sanno molte cose sugli open data. Questo dovrebbe funzionare bene per i problemi ben definiti, in cui il policy maker sa con certezza dove cercare una soluzione. Ma molti problemi di policy interessanti non sono affatto ben definiti. L’inquinamento atmosferico in città è un problema tecnologico? Allora dovremmo intervenire sul settore automobilistico per fargli produrre auto meno inquinanti. O è un problema di pianificazione urbana? Occorre modificare il piano regolatore, avvicinando i luoghi di lavoro a quelli di residenza per ridurre il pendolarismo. Un problema di organizzazione del lavoro, forse? Dovremmo incoraggiare i datori di lavoro a eliminare i loro uffici e dare ai dipendenti strumenti software perché possano lavorare da casa? Un momento, forse è un problema di mode: potremmo usare il marketing per rendere le biciclette più popolari. Nessuno lo sa. Probabilmente il problema è tutte queste cose, più chissà quante altre. Non è affatto chiaro a priori che tipo di esperto ti serve, tanto più che ogni mossa che fai in una delle dimensioni del problema influenzerà le altre.

Non è ancora finita, Le categorie stesse in cui raggruppare gli esperti sono socialmente determinate, e in continua trasformazione. Puoi immaginare un policy maker che cerca un esperto in  open data nel 1996? No, perché il concetto non esisteva. Il database di Beth può, oggi, aiutarci a trovare esperti in open data solo perché qualcuno ha ricombinato le componenti di ciò che oggi chiamiamo open data (tecnologie, standard, licenze etc.) in un modo nuovo, che risolveva certi problemi. Questo ha funzionato così bene che ha ricevuto un’etichetta, appunto open data, che oggi potete mettere nel vostro CV in modo che una ricerca nel database di Beth vi trovi. Quindi, la soluzione di Beth può trovare esperti di discipline già codificate, ma non quelli delle soluzioni in via di codificazione; ma sono questi ultimi quelli che contano, quelli che stanno sulla frontiera dell’innovazione.

Colander e Kupers hanno le proprie soluzioni, come racconto sopra. Sono soluzioni brillanti e sensatissime. Sono anche in netta rottura con il modo in cui il governo funziona oggi. È improbabile che emergano per caso. Chiunque abbia provato a fare innovazione in un’amministrazione pubblica sa quanto sia difficile fare passare qualunque cambiamento, anche piccolo. Come funzionerebbe la riprogettazione radicale auspicata da Colander e Kupers? Per diktat di qualche leader visionario? Possibile, ma ricorda: la modalità attuale di funzionamento della macchina governativa è emersa (“architettura senza architetti”). Entrambi i libri offrono resoconti sofisticati di questo emergere. Con tutta l’ammirazione che ho per i loro autori, mi pare incoerente che propongano, invece, una soluzione imposta dall’alto.

Quindi, dove vanno le politiche pubbliche del ventunesimo secolo? Al momento, non vedo alternative ad abbracciare il pensiero della complessità. È molto forte nell’analisi, e una volta che cominci a vedere le cose in questi termini è impossibile smettere di vederle. Inoltre, fornisce soluzioni implementabili localmente. Per esempio, in certi casi puoi convincere lo stato a fare cose coraggiose e innovative in via sperimentale, e sperare che quello che succede nell’esperimento venga imitato. Per ora, questo dovrà bastarci. Ma va bene così. L’età dell’innocenza è finita: oggi sappiamo che non c’è nessuna soluzione facile e veloce. Forse un giorno avremo soluzioni sistemiche non velleitarie: se mai ci arriveremo, è probabile che Beth Noveck, David Colander e Roland Kupers siano i primi a trovarle.

Photo credit: Cathy Davey on flickr.com

Il draghetto esce dall’uovo: progettare dinamiche emergenti in una comunità online (lungo)

Questo non è un post, ma un saggio, più lungo di un post normale. Riguarda il progetto Dragon Trainer, di cui ho già parlato qui: insieme ai colleghi di Università di Alicante e European Center for Living Technology sto cercando di sviluppare un software in grado di diagnosticare le dinamiche sociali emergenti nelle comunità online, e di aiutare i rispettivi community managers a prendere decisioni informate. Penso che sarà solo il primo di una serie. È solo in inglese, mi spiace!

Why is this important?

For some time now policy makers have been fascinated by entities like Wikipedia: non-organizations, loose communities of individuals with almost no money and no command structure that manage, despite this apparent lack of cohesion, to collaborate everyday in producing complex, coherent artifacts. Such phenomena are made even more tantalizing by the uncanny speed and efficiency with which they do what they do. Can we summon Wikipedia-like entities into existence, and order them to produce public goods? Can we steer them? Can we do public policy with them?

In order to do so, we will need to learn to craft policy into a new space, which – following Lane and others – we call the meso level. Such policies will not be targeted at individual behavioral change (micro policies); nor at the economy or the whole society (macro policies). They will be targeted at achieving certain patterns of interaction between a large group of people. Individual may and will move in and out of these patterns, just like individual water molecules move in and out of clouds; but this does not much affect the behavior of the cloud.

Operating at the meso level – running an online community of innovators, for example – entails managing a paradox. Structuring interaction among participants as a network of relationships, of which participants themselves are the nodes, can result in extremely effective and rewarding participation, because – under certain circumstances – each participant is exposed to information that is relevant to them, while not having to browse all the information the community knows. This results in a very high signal to noise ratio from the point of view of the participants; they often report experiences of greatly enhanced serendipity, as they seem to stumble into useful information that they did not know they were looking for and was sent their way by other participants.

This extraordinary efficiency cannot be planned a priori by community managers, who – after all – do not and cannot know what each individual participant knows and what she wants to know. The desirable properties of networks as information sharing tools arise from the link structure being emergent from the community’s endogenous social dynamics. The paradox stems from the fact that endogenous social dynamics can and often do steer online communities away from its goals and onto idle chitchat or “hanging out”, that seems to be the default attractor for large online networks. So, managers of communities of innovators need to let endogenous dynamics create a link structure to transport information efficiently across the network while ensuring that the community does not lose its focus on helping members to do what they participate in it to do.

Building Dragon Trainer: a case study

With this in mind, I joined forces with emergence theorists, network scientists and developers to build the prototype of Dragon Trainer, an online community management augmentation tool. It models an online community as a network of relationships, and uses network analysis as its main tool for drawing inferences about what goes on in the community. Generally speaking community managers build knowledge of their communities by spending a lot of time participating rather than using formal analysis; and they act on the basis of that knowledge by resorting to a repertoire of steering techniques learned by trial and error. The error component in trial-and-error is usually fairly large, because by construction there is no top-down control in online communities; the community manager can only attempt to direct emergent social dynamics towards the result that she sees as desirable. Control over the software does give her top-down control in the trivial case of prohibition: by disabling access, or comments, she can always dampen activity directly. What she cannot do without directing emergence is enhancing activity – which is what online communities of innovators are for.

DT aims at augmenting this approach in two ways. Firstly, it allows the community manager to enrich the “local” knowledge she acquires by simply spending time interacting with the community. Such knowledge is extremely rich and fairly accurate for small communities, but it does not scale well as the network grows. Network analysis, on the other hand, scales well: computing network metrics on large networks is conceptually not harder than doing it on small ones, though it can get computationally more intensive. In an ideal situation, a community manager might start to use DT when her network is still small and she has a good informal understanding of what goes on therein simply by participating in it; she could then build a repertoire of recipes. We define recipes as formalisms that map from changes in the mathematical characteristics of the network to social phenomena in the community represented by that network. Recipes of this kind enhance the community manager’s diagnostic abilities, and take the form:

Network metric A is a signature of social phenomenon B.

As she tries out different management techniques to yield her desired results, she would then proceed to build more recipes, this time mapping from management techniques to their outcomes – the latter being also be measured in terms of changes in the metrics of the network representing the community. Recipes of this kind enhance the community manager’s policy making, and take the form:

To get to social outcome C, try doing D. Success or failure would show up in network metric E.

She then might be able to lean on repertoires of recipes of both kinds to run the network as it gets larger, because the software does not lose its ability to monitor those changes. These repertoires of correspondences are going to be built by integrating inputs from two different sources. The first one is theoretical: the systemic theory of emergence in the social world that some of my colleagues are engaged in developing. The second one is practical: the firsthand experience of community managers, myself included. Once built, the two repertoires would make up DT’s knowledge base, its computational intelligence core.

What follows is an account of a concrete case in which network science helped formulate a policy goal, the completion of which could then be monitored through, again, network analysis. It is only a small example, but we believe directed emergence is at work in it. And if emergence can really be directed then yes, in principle public policies can happen in the mesolevel and become closer to Wikipedia.

Context

In March 2009 I was the director of an online community called Kublai, a project of the Italian Ministry of Economic Development. People use Kublai to develop business plans for creative industries projects or companies. At the time it was about 10 months old; we had about 600 registered members working on 80 projects. I directed a small team that did its best to encourage people to try and think out new things, and to help each other to do so. Most creatives find it hard to achieve critical distance from their pet ideas, and an external, disenchanted eye might help them become aware of weaknesses or untapped sources of strength. Even simple questions like “why do we need your project?” or “how do I know this is better than the competition?” can help.

These conversations happen online, in the context of a small, dedicated social network that used the Ning software-as-service platform. We customized Ning’s translation to change the names of the “groups” functionality into “projects”: the object in the database was still the same, but rhetorically we were encouraging people to come together to collaborate to a project’s business plan. Ning groups lent themselves well to the task, because each sports (1) a project wall for comments; (2) a forum for threaded discussion; (3) group-wide broadcast message functionalities at the disposal of the group creator. In March 2009 the largets projects/groups in Kublai had about 60/70 members.

Ruggero Rossi, like me, is passionate about self-organizing behavior in the social world. When he proposed to do his thesis by running a network analysis of the Kublai social graph, I supported him in every way I could. The thesis was supervised by David Lane, a complexity economist I admire, which was an added bonus.

March 2009: diagnosis

The first problem was to specify our network. We decided nodes would correspond to people: each user is a node. The links could be several things, since there are several types of relationships between members of a Ning social network: relationships might be created by adding someone as a friend, leaving a comment on her wall, sending her a message, joining the same group/project etcetera. We decided to focus on collaboration in writing business plans, which is Kublai’s core business; we also decided that, in the context of Kublai, only writing in the context of a group/project counts as collaboration.

So we defined the link as follows: Alice is connected to Bob if they both have posted a comment on the same project. This is a somewhat bold assumption, because positing some kind of communication between the two implies that everybody who ever posted anything within a project reads absolutely everything that is posted in that project. I thought that was reasonable in the context of Kublai, also given the short time frame in which the comments had been piling up. This implies a bidirectional relationship: in network parlance, the graph is called undirected, and its links are called edges. The edges are weighted: the edge connecting Alice to Bob has an intensity, or weight, equal to the number of comments posted by Alice on the project times the number of comments posted by Bob on the same project. If they collaborate on more than one project, we simply add the weight of the link created across all projects on which they are both posting comments.

Eventually Ruggero crunched the data and showed me his results, that boil down to this:

  • all active (posting) members of Kublai were connected in a giant component: there was no “island”.
  • a kernel of people who were highly connected to each other acted as Kublai’s hub, connecting each participant to everybody else in the network. All of the paid team members were part of this kernel: no surprise here. More surprisingly, many non-team members were also part of the kernel. So many, in fact, that if you removed all of the team members from the graph it would still not break down; everybody would still be connected to everybody else.

Summer-fall 2009: policy

This was an epiphany for me. I discussed these results with the team, and our interpretation was this: a core of dedicated community members was forming that was buying into Kublai’s peering ethics. They took time off developing their own projects to help others with theirs. This was a very good thing, in two ways.

  1. it implied efficiency. With more people participating in more than one project, Kublai could do a better job of transporting information from one project to another, and that is the whole point of the exercise. Alice is stuck with her project on some issue, and it turns out that Charlie, somewhere else in the network, has run into the same problem before. Alice does not know this, but she does collaborate with Bob, and Bob is a collaborator on Charlie’s project. So Bob can point Alice to what Charlie already did: Alice needs not walk Charlie’s learning curve all over again.
  2. it implied resilience. If enough people do this, we thought, maybe the Ministry can turn Kublai over to the community, which will keep running it at little or no cost to the taxpayer. This would have created a public good out of thin air. Not bad!

So, we decided to encourage this self-organizing feature. How to do it? A way to go about it was to encourage especially people who were developing projects (progettisti) to interact more. What could bring them together? Purely social stuff like football or celebrities discussion groups were not even considered: they would mar the informal, yet hardworking atmosphere of Kublai. According to my readings on the early days of online communities, something that any community loves to do is discussing itself. So, we thought we would turn over some of the control over the rules of Kublai to the community, and we would put a significant effort in it. We created a special group in Kublai, the only one that was not a project at that point, and called it “Club dei Progettisti”. Joining was unrestricted; also, we actively invited everybody in the kernel and everybody who had started a project up to that point. We did things like coordinate to welcome newcomers and discuss the renovation of the Second Life island we used for synchronous meetings. The atmosphere was that of the inner circle, the “tribe elders” of our community. This went on from about May to the end of 2009.

December 2009: policy assessment

Was the policy working? It was hard to say. The Club dei Progettisti grew to be by far the largest and most active in Kublai, but that does not mean that people interacting more in that context would then go on to collaborate on business plans in the context of individual projects, that was our real goal. It did feel like we had a vibrant community going – but not all the time. And then vibrant with respect to what? And how does vibrancy translate into effectiveness? We spent a lot of time online, and sailed by instinct. Instinct checked green, but let’s face it – after one thousand users and 150 projects it was hard not to lose the overview.

With another round of network analysis I would have been able to have a stab at policy assessment. In network terms, I wanted the kernel to be bigger: more people not from the Kublai team, collaborating across more projects, would facilitate the information flow across projects and improve efficiency. But Ruggero had finished his thesis, and the administrative structure running Kublai was at this point so rigid that contracting him was next to impossible.

Only recently, two years later, did I get the chance to crunch an export of the Kublai database. We at the Dragon Trainer group extracted a snapshot of Kublai at March 23rd 2009 (the same day Ruggero scraped it for his thesis) and one at December 31st 2009.

In these two images the nodes, representing members of the Kublai community, have been color coded according to a measure called betweenness centrality, indicating how often the node is in the shortest paths connecting other nodes (it is often interpreted as an indicator of brokerage efficacy). Yellow nodes are the least central and blue nodes the most central, with orange ones in an intermediate position; nodes representing the Kublai team employees (typically very central) have been dropped from the graph altogether. In March 2009, a handful of community members, less than ten, collaborated on several projects on a regular basis – and, as a result, did most of the brokerage of information across the network. In December, however, their number had about doubled, despite the fact that attaining orange or blue “status” required a lot more work (the most central node in the March network has betweenness centrality 1791, the one in the December network 7740). At the end of the year, Kublai’s kernel was both larger and more connected than it had been in March. This growth is an emergent social dynamics: there is no top-down control in these graphs, anybody I could tell “go form a link with X” has been dropped from the dataset. But this emergence is somehow directed: we wanted to get to a social arrangement whose graph looks like this.

You can see how powerful this thing is. We can already say something just by looking at the graph; we have not even started to crunch the numbers, let alone do more sophisticated things. We could (and we will) compute and compare measures of network centralization; respecify the network in many different ways, allowing for link impermanence (if Alice and Bob are linked but don’t keep interacting, after a while the edge fades out), bipartite networks (what about a people-project graph?) directed graphs (links representing monodirectional help rather than bidirectional collaboration: if Alice posts on Bob’s project, she is helping him, but Bob might not reciprocate); and play with the data in as many ways as we can think of.

We keep working on this, and we will continue to share our results and our thoughts. If you want to be a part of this effort, you can, and are absolutely welcome. Everything we do (the data, the code, the papers, even the mailing list) is open source and reusable. Download what takes your fancy and let us know what you are doing. We are looking forward to learning from you.

  • Download the raw data (database dump, anonymized).
  • Download and improvethe code to export the data into file formats supported by the main network analysis software.
  • Download the exported data if you would like to jump right into the network analysis. .net files (Pajek projects) are importable also in Gephi and Tulip.
  • join our mailing list if you want to be involved in our discussion. Everyone welcome, no technical background is required. We are online community managers mathematicians, coders, public policy practictioners, committed to being interdisciplinary and therefore to going out of our way to make anyone feel welcome.

Crowdsorcery: come sto imparando a costruire comunità online

Sto lavorando alla costruzione di una nuova comunità online, che si chiamerà Edgeryrders. È un’attività ancora relativamente nuova, affidata a un sapere ancora non del tutto codificato. Non c’è un manuale di istruzioni che, eseguite, ti garantiscono i risultati: alcune cose funzionano ma non sempre, altre funzionano più o meno sempre ma non capiamo perché.

Non è la prima volta che faccio cose del genere, e sto scoprendo che anche in un campo così complesso e meravigliosamente imprevedibile si può imparare dall’esperienza, e come. Alcune delle iniziative di Edgeryders sono riadattamenti dell’esperienza Kublai: il crowdsourcing del logo, e il reclutamento del team a partire dalla neonata comunità, ad esempio. Per altre decisioni mi sono ispirato a progetti non miei, come Evoke o CriticalCity Upload; e molto mi hanno insegnato gli errori, sia miei che altrui.

È un’esperienza strana, esaltante e umiliante al tempo stesso. Sei il crowdsorcerer, l’esperto, colui che può evocare ordine e senso dal magma della rete. Tu ci provi: pronunci le formule, agiti la tua bacchetta magica e… qualcosa emerge. Oppure no. A volte tutto funziona benissimo, ed è difficile resistere alla tentazione di attribuirsene il merito; altre non funziona niente, e per quanto ci provi non riesci a trovare l’errore. E l’errore – come il merito, del resto – potrebbe non esserci: le dinamiche sociali non sono deterministiche, e i nostri migliori sforzi non sono sempre sufficienti a garantire il risultato.

Per come la vedo io, la competenza che sto cercando di sviluppare – chiamiamola crowdsorcery – richiede:

  1. pensare in probabilità (con varianza alta) anziché in modo deterministico. Un’azione efficace non è quella che, a colpo sicuro, mobilita dieci contributi di buon livello, ma quella che raggiunge mille sconosciuti, di cui novecento ti ignorano, novanta contribuiscono cose di bassissimo livello, nove ti danno cose di buon livello e uno ti scrive il contributo geniale, che ti rivolta il progetto come un guanto e influenza tutti gli altri novantanove (i novecento sono persi comunque). Il trucco è che nessuno sa chi sia quell’uno, neppure lui o lei, fino a che non cominci a sparare nel mucchio.
  2. monitorare e reagire anziché pianificare e controllare (adaptive stance). Costa meno e funziona meglio: se una comunità ha un tropismo naturale, ha più senso incoraggiarlo e cercare di capire come valorizzarlo che non reprimerlo. Il monitoraggio online è tendenzialmente gratis, anche quello “profondo” alla Dragon Trainer, quindi meglio non risparmiare sulle web analytics.
  3. costruirsi un arsenale teorico ridondante anziché appoggiarsi sulla linea del pragmatismo (“faccio così perché funziona”). La teoria pone domande interessanti, e trovo che cercare di leggere il proprio lavoro alla luce della teoria aiuti il crowdsorcerer a costruirsi attrezzi migliori. Io sto usando molto l’approccio complexity e la matematica delle reti. Per ora.