Si parla moltissimo di smart cities. Per questa grande attenzione ci sono, a mio parere, due motivi.
Il primo è strutturale: le città sono il nostro futuro come specie. Già ora, e per la prima volta nella storia dell’umanità, oltre metà della popolazione mondiale vive in città. Ogni settimana, 1.3 milioni di persone si trasferiscono in città dalle campagne del pianeta Terra. Ha molto senso che applichiamo la nostra intelligenza al nostro habitat numero uno.
Il secondo è contingente: il Governo ha messo sul piatto oltre 600 milioni di euro per progetti di ricerca e intervento volti a “risolvere problemi di scala urbana e metropolitana” in ambiti come sicurezza, invecchiamento, tecnologie per il welfare, domotica, smart grids eccetera.
L’interferenza tra i due fa sì che l’espressione “smart cities” venga intesa nei modi più diversi. Semplificando un po’, ma neanche troppo, le proposte più importanti sono due. La prima (anche nel senso che è stata la prima in ordine di tempo) è associata ad alcune grandi imprese: IBM, Cisco, ma anche Google con progetti come Latitude. L’idea è quella di usare sensori collegati in rete per aumentare la densità del flusso di informazioni che le città ci passano, adattandovi i nostri comportamenti e usandolo per riprogettare e migliorare i luoghi in cui viviamo. La riprogettazione doterà il territorio di nuove infrastrutture, ad esempio: le colonnine per la ricarica delle batterie delle auto elettriche, a loro volta collegate a nuovi sensori. I sensori più importanti sono a bordo dei nostri smartphone, che riversano in continuazione in grandi basi dati informazioni sul mondo che ci circonda. Al centro di questa visione stanno tecnologie e interdipendenza: il suo simbolo è la famosa Copenhagen Wheel del MIT.
La seconda proposta è associata alla cultura hacker e al mondo dell’innovazione sociale. L’idea è quella di riprogettare le città per renderle più comode, semplici, sostenibili anche economicamente. Qualche volta questo implicherà l’introduzione di tecnologie più avanzate di quelle attuali (per esempio il microsolare, illuminazione pubblica a LED); altre volte spingerà soluzioni low tech (la bicicletta, l’agricoltura urbana). Al centro di questa visione stanno relazioni sociali, costruzione di comunità e consapevolezza della fragilità dell’ambiente naturale che circonda le città costruite da homo sapiens. Il suo simbolo è la Ciclofficina.
La prima proposta schiera tecnologie avanzate, design curato, ricercatori di riconosciuta eccellenza. Tutti i pezzi, presi singolarmente, sono smart. Eppure accade una cosa strana: una volta messe insieme, le parti danno vita a un intero (la città) che a me non pare smart per niente. Prendete le auto elettriche. Sono silenziose e non emettono gas di scarico. Ma:
- l’energia elettrica con cui ricaricarle deve venire prodotta in qualche modo. In un mondo in cui le sorgenti idroelettriche sono già sostanzialmente sfruttate e il nucleare è politicamente inaccessibile, aggiungere potenza installata vuole dire bruciare idrocarburi. Le emissioni delle auto, quindi, non vengono eliminate, ma solo spostate. Le emissioni possono diminuire o aumentare a seconda delle caratteristiche delle centrali esistenti e della rete; le centrali a idrocarburi disperdono in calore il 50% dell’energia derivante dalla combustione; un altro 5% viene disperso nella rete elettrica durante il trasporto (fonte). Dunque, di 100 KW imprigionati nel gasolio, solo 45 arrivano alla batteria dell’auto elettrica.
- richiedono una costosa infrastruttura.
- le auto elettriche sono auto: ripropongono l’idea che occorre associare a ogni essere umano una scatola di latta di quattro metri per uno e mezzo per uno, che viene usata in media un’ora al giorno e occupa prezioso territorio urbano per le altre ventitré. Quindi non risolvono i problemi di mobilità – anzi, li aggravano, visto che possono entrare nelle zone a traffico limitato.
- sono una tecnologia non permissiva. Non puoi modificarle, non puoi caricarle in altro modo che non collegandoti alla rete elettrica. Ci confinano in ruolo passivo – lo stesso che abbiamo con le auto a combustione interna.
Prendiamo, invece, una soluzione alla mobilità apparentemente meno innovativa: le congestion charges, cioè quei provvedimenti che obbligano chi accede in auto al centro cittadino a pagare una tariffa. L’esempio italiano più noto è quello dell’Area C del Comune di Milano. I risultati di Area C parlano da soli: riduzione degli ingressi del 34% (49% per i mezzi più inquinanti), aumento della velocità commerciale dei mezzi pubblici del 5%; riduzione degli incidenti stradali del 24% dei ferimenti del 24%; riduzione dei principali agenti inquinanti dal 15% al 23% (fonte).
Ma il più grande vantaggio di Area C, a ben vedere, è che crea spazio invece di occuparlo. In prospettiva, rende disponibili le vie del centro come piattaforma per l’interazione sociale, il gioco, il commercio, la ristorazione, l’innovazione negli stili di vita. Non dovendo dedicare la maggior parte della loro superficie alle auto, veloci e pericolose, le persone possono provare a spostarsi con le biciclette, i rollerblade, di corsa. Hobbyisti di talento e artigiani della meccanica possono dare vita a nuovi ecosistemi attorno alla mobilità urbana leggera: nei paesi che hanno già fatto questa transizione si vedono biciclette con trailers, biciclette con pianali di carico per il piccolo trasporto merci. Si vedono bambini che possono andare a scuola da soli, liberi dalla minaccia delle auto.
Quindi, cosa vuol dire smart in smart city? Le due visioni che ho provato a raccontarvi si non sono chiaramente distinte nel dibattito corrente. A me, però, sembra che siano non solo diverse, ma contrapposte. La smart city del primo tipo ha una vocazione centralista: tutta l’intelligenza è concentrata nei tecnologi delle imprese e delle università, e ai cittadini resta il ruolo di consumatori dei vari gadget. Quella del secondo tipo guarda alla decentralizzazione spinta: crea spazio, e promuove la creatività di tutti. La smart city del primo tipo usa algoritmi di profilazione e il tuo smartphone per segnalarti che sei vicino a un negozio che vende abiti del tuo stilista preferito. Quella del secondo tipo è piena di gruppi di acquisto solidale, orti urbani, sewing café, hackerspace, fablab. La smart city del primo tipo fa grandi investimenti in telefonia cellulare ultraveloce. Quella del secondo tipo evoca quasi dal nulla reti wi-fi cittadine utilizzando come hotspot i router delle nostre case, dei bar, delle biblioteche (come fa a Milano GreenGeek). Nella smart city del primo tipo gli studenti vanno a scuola con i tablet. In quella del secondo tipo usano materiali didattici in creative commons – e probabilmente possono scegliere se ascoltare la lezione dal loro professore in aula o dalla Khan Academy o OilProject in video. La smart city del primo tipo delega le attività produttive (agricoltura, industria, finanza) a grandi imprese strutturate per sfruttare i vantaggi di scala. Quella del secondo tipo le distribuisce, almeno in parte, tra tante piccole esperienze: permacoltori, makers, community lending.
Si sarà capito che io trovo molto più smart e più moderna l’idea di decentrare. Ma c’è un problema: quasi tutto quello che è smart in questo senso riduce il PIL. Se i mezzi pubblici funzionano meglio, più gente li usa: il traffico si riduce, ma si riduce anche il consumo di automobili e di benzina. Se le persone fanno più sport e si ammalano di meno il PIL si riduce (la sanità è un business immenso). L’AreaC, riducendo gli incidenti stradali, riduce il PIL, riducendo il ricorso a medici, fisioterapisti, carrozzieri. Le smart cities del primo tipo non hanno questo problema: la Copenhagen Wheel costa 600 dollari, e per funzionare richiede anche un iPhone (oltre alla bicicletta), tanto che il Guardian si è chiesto cosa ci fosse di smart nel mettere oltre mille euro di elettronica sofisticata su una bicicletta, un oggetto facile da rubare.
La scelta di centralizzazione piace molto alle imprese. È comprensibile, perché consegna loro una forte centralità e modalità chiare per monetizzare. Non ho dubbi che saranno loro le protagoniste nella vicenda del famoso bando dal governo. Eppure, ho l’impressione che negli ultimi mesi si cominci a sentire anche la voce dei sostenitori di soluzioni decentralizzate – che viene, come al solito, dal più decentralizzato dei luoghi, cioè da Internet.
L’aspetto affascinante della discussione sulle smart cities è che ci costringono a farci le domande che contano davvero. Cosa misura davvero il PIL? Cos’è veramente questa crescita che cerchiamo di stimolare? Come vogliamo vivere insieme nelle nostre città? Comunque andrà a finire, spero che ci prenderemo il tempo e le energie mentali per andare a fondo della discussione. Non capita tutti i giorni di prendere decisioni collettive così ad ampio raggio, che ci costringono a chiederci davvero cosa vogliamo, e come vogliamo vivere insieme. Per cogliere pienamente questa occasione, spero che i primi sensori delle nuove smart cities saranno sensori di ascolto della voce dei cittadini (e intendo gli individui, non solo gli stakeholders); e che le loro prime tecnologie abilitanti siano ambienti accoglienti e orientati all’argomentazione razionale, collocati sia online che offline, in cui prendere insieme le decisioni del caso. Il primo spazio da decentralizzare è proprio quello della decisione pubblica, dove la decentralizzazione si chiama democrazia.