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L’innovazione abita sulla frontiera: appunti da una conversazione con Fabrizio Barca

Fabrizio Barca è uno dei più interessanti policy makers italiani. Il suo nome è arrivato al grande pubblico nel 2011, quando Mario Monti lo ha nominato Ministro per la coesione territoriale. Chi si interessa di politiche pubbliche, però, lo segue da molto più tempo. Io mi confronto con lui da quasi vent’anni. Per i primi anni questo confronto è passato attraverso i suoi scritti, che io leggevo e discutevo con amici e colleghi (alcuni dei quali lavoravano con lui). In anni più recenti abbiamo cominciato a incontrarci di persona. Quando passo da Roma mi piace andarlo a trovare. Lui mi racconta cosa vede dal suo punto di osservazione e cosa sta facendo, io ci rifletto e cerco di dire qualcosa di intelligente. Qualche volta ci riesco, altre meno.

Dopo la fine del suo incarico ministeriale, Fabrizio ha dedicato molta energia alle aree interne. Le aree interne sono luoghi lontani da centri di offerta di istruzione (scuole) salute (ospedali) e mobilità (stazioni ferroviarie). Si tratta di circa quattromila comuni, che occupano il 60% del territorio nazionale e dove abita il 25% degli italiani. Sono borghi di collina e montagna, alpeggi, campi, pascoli. Sono spesso luoghi belli, ricchi di storia e di cultura locale. Altrettanto spesso soffrono di calo della popolazione, riduzione dell’occupazione, riduzione dell’offerta di servizi. I terreni meno produttivi vengono abbandonati, aprendo le porte a problemi ambientali come inondazioni o frane. L’innovazione ristagna.

È evidente: le aree interne sono importanti, e lo stato fa bene a occuparsene. In questi anni, però, non sono riuscito a capire perché Fabrizio sentisse il bisogno di occuparsene di persona. Negli ultimi quindici anni, gli economisti dello sviluppo hanno sottolineato piuttosto l’importanza strategica delle città. Nel 2014 il 53% dell’umanità viveva già nelle aree urbane; l’80% del PIL del mondo viene prodotto nelle città (Banca Mondiale). Per i paesi sviluppati queste percentuali sono molto più alte. Per esempio, nell’area euro il 76% della popolazione viveva in aree urbane nel 2014.

L’Italia è un po’ meno urbanizzata della media dei paesi sviluppati (“solo” il 69% della popolazione viveva in città nel 2014). Ma anche da noi le città hanno un’importanza strategica evidente. Per convincersene, basta considerare Milano. L’area metropolitana di Milano ha un po’ più di 5 milioni di abitanti: vi abita, quindi, un italiano su dodici. Nel 2004, quest’area aveva un PIL di 241 miliardi di euro: più alto di quello dell’intera Austria, e pari al 13% di quello italiano.

Non è solo questione di PIL: Milano e le altre aree urbane producono la quasi totalità delle esportazioni italiane, cioè, alla fine, il nostro contributo all’economia mondiale. La chimica. Il tessile e abbigliamento. La gomma e la ceramica. I mezzi di trasporto. I macchinari industriali. L’Italia è un’economia manifatturiera, una delle più importanti al mondo. Anche l’agrifood si fa pubblicità con immagini di campi verdeggianti, ma alla fine vende prodotti trasformati. Nel 2014 abbiamo esportato prodotti alimentari (trasformati), bevande e tabacco per 28 miliardi, e ne abbiamo importati più o meno altrettanti. Nell’agro alimentare, quindi, abbiamo un saldo di bilancia commerciale pari a circa zero. Il settore macchinari e apparecchi meccanici, per contro, ha prodotto esportazioni per oltre 74 miliardi nel 2014, e ha registrato un saldo di bilancia commerciale attivo pari a oltre 50 miliardi (ICE). La grande maggioranza delle aziende di questo comparto si trova nelle aree urbane, non in quelle interne.

L’Italia non è un’eccezione. Le città producono più ricchezza pro capite delle campagne; e le città più grandi ne producono di più di quelle meno grandi.  Due fisici, Luis Bettencourt e Geoffrey West, hanno trovato una relazione matematica esatta tra le dimensioni della città e la sua produzione (PMAS). L’abitante medio di una metropoli produce di più e guadagna di più di quello di una città più piccola. Più precisamente, una città con abitanti produce un reddito pari a n elevato alla 1.12-esima potenza. Questo significa che, al crescere delle dimensioni cittadine, il reddito medio aumenta. A parità di altre condizioni, il reddito medio pro capite in una città di dieci milioni di abitanti è circa del 30% più alto rispetto alle città con un milione di abitanti; e circa del 75% più alto rispetto a quelle che ne hanno solo centomila.

Questo tipo di crescita  si chiama superlineare. Caratterizza molti fenomeni urbani, dai depositi bancari al consumo di elettricità, e lo fa in modo molto simile in tutto il mondo. Caratterizza in particolare le variabili legate all’innovazione, come il numero di brevetti depositati ogni anno o il numero di ricercatori.

Perché le città hanno tanto successo economico? Secondo Bettencourt, le città sono “reattori sociali”: somigliano alle stelle (che sono reattori nucleari) più che a organismi viventi (Science). La loro capacità di produrre innovazione e ricchezza dipende dal numero delle connessioni che sono in grado di attivare. Il commercio, la scienza, la produzione: tutti questi sono fenomeni di rete, perché dipendono dagli scambi tra persone e imprese. Intuitivamente, il numero degli scambi possibili cresce molto rapidamente al crescere delle persone coinvolte. Una sola persona non può fare scambi. Tra due persone, Anna e Bernardo, possono realizzare una sola connessione tra loro. Aggiungendo una terza persona, Chiara, le connessioni possibili sono tre: Anna-Bernardo, Bernardo-Chiara, Chiara-Anna. Aggiungendone una quarta, le connessioni diventano sei; aggiungendone una quinta,  diventano dieci. Quando si arriva a un milione, sono possibili quasi cinquecento miliardi di connessioni (divertitevi a verificarlo!).

La possibilità di molte connessioni permette la specializzazione; la presenza di persone e organizzazioni specializzate permette una produttività più alta. La matematica delle connessioni sembra indicare che il futuro dell’umanità appartiene alle città. I poveri del mondo sembrano essere d’accordo, perché vi si trasferiscono in massa. Secondo l’ecologo e pioniere digitale Stewart Brand, a guidarli è la possibilità di accedere a servizi migliori (soprattutto istruzione); e il netto aumento di libertà personale di cui gli abitanti delle città godono rispetto a quelli dei villaggi. Soprattutto se sono donne. Secondo Brand, questi benefici sono immediatamente a disposizione di tutti gli abitanti delle città, anche nelle peggiori favelas. I dati che cita mostrano chiaramente che chi arriva in città comincia ad arrangiarsi con attività semilegali. Nel giro di un paio di decenni, però, queste si trasformano in attività completamente legali. La seconda generazione di immigrati urbani ha quasi sempre un’istruzione, e aspira alla classe media.

Questo mi riporta alle mie discussioni con Fabrizio Barca: perché il più interessante policy maker italiano non si occupa di città? Perché questa fascinazione per i borghi di montagna e le vallate?

Qualche settimana fa, durante una lunga chiacchierata nel suo ufficio romano, gli ho fatto la domanda direttamente. Riassumo la risposta: Fabrizio pensa che le aree interne siano il futuro non del mondo, ma dell’Italia. Per tre ragioni:

  • Rappresentano la maggior parte del territorio nazionale, e sono abbastanza omogenee tra loro. La Val Basento in Sicilia e la Val di Vara in Liguria hanno problemi simili. I loro dirigenti si capiscono al volo tra loro, e possono collaborare, scambiandosi esperienze. Una policy per le aree interne ha buone possibilità di scalare al livello nazionale.
  • Per contro, le città italiane sono molto diverse tra loro, e diverse anche dalle altre città europee. Napoli è l’unica vera area metropolitana d’Italia. Milano ha alcune delle caratteristiche della grande città europea (design, finanza, creatività) ma non ne ha le dimensioni. Roma è un conglomerato turistico-burocratico-pastorale. Nessuna generalizzazione è possibile. Ciascuna grande città va affrontata come un problema a sé stante.
  • Ma soprattutto, in Italia, le aree interne danno segnali di vitalità. Vi nascono produzioni di eccellenza legate al turismo, alla cultura, all’agrifood. La scuola tiene, e in molti casi rilancia, arricchendosi di tecnologia. Lo stesso abbandono del territorio è a un millimetro dal rovesciarsi in una grande opportunità. Perché nelle aree interne c’è spazio. C’è attenzione delle comunità, c’è fame di innovazione, ci sono spazi a basso costo (e spesso molto belli) in cui portare nuove idee e nuove persone (Fabrizio: “Si offre diversità a un mondo che domanda diversità”).

Raccontata così, la storia di Barca mi sembra convincente – tanto più che ha una valanga di dati a suffragarla. Quindi il futuro è nelle aree interne, nelle loro colline e nei loro campanili. D’altra parte, anche la storia che emerge dagli studi di Banca Mondiale, Bettencourt-West e Brand è convincente, e anche quella è sostenuta da moltissimi dati. Quindi il futuro è nelle città, nelle loro università, nei loro laboratori, e anche nelle loro favelas. Come fanno queste due storie ad essere vere contemporaneamente?

La mia ipotesi è questa: l’innovazione territoriale ha bisogno di libertà, di luoghi dove provare a fare cose nuove senza troppi vincoli. Dove le norme sociali approvano, o perlomeno non condannano, chi prova a percorrere strade insolite. Dove lo spazio non è già tutto rivendicato da stakeholders potenti e strutturati. Se mi guardo intorno, mi sembra che tutti gli spazi innovativi siano spazi più liberi della media. La libertà si trova nelle favelas raccontate da Brand, perché lo stato rinuncia a mantenervi un controllo capillare. Si trova nelle web farm e nei data havens della Silicon Valley, perché quel mondo (finora) è stato velocissimo e impermeabile agli strumenti tradizionali di controllo dell’economia. Si trova nello spazio, dove Elon Musk e gli altri space billionaires costruiscono un loro pezzo di futuro. E si trova nelle aree interne, aperta proprio dagli spazi fisici e dalla bassa densità di popolazione, che ti mettono al centro della società locale se appena prendi un’iniziativa coraggiosa. Questi luoghi sono la frontiera della società contemporanea, il nostro West, il nostro spazio vitale.

Se è così, allora la narrazione unificante del 2016 è più o meno questa. Le persone intelligenti, ambiziose o soltanto irrequiete sono in fuga dagli spazi chiusi, dove organizzazioni potenti (politica, stato, grande industria) limitano il raggio d’azione dell’iniziativa individuale. Dove vanno? Vanno a colonizzare gli spazi di frontiera. Le frontiere sono luoghi pieni di contraddizioni, talvolta anche spietati, ma forniscono agli individui meccanismi di mobilità sociale, e alle società laboratori di sperimentazione. L’Italia ha una frontiera in più: le aree interne. Ci servirà soprattutto per innovare sull’ambiente, sul turismo, sul leisure, sul presidio del territorio. È una bella occasione. Giochiamocela bene.

Foto: Mauro Mazzacurati su flickr.com

Ripostato da CheFuturo

Cosa vuol dire “smart” in “smart cities”?

Si parla moltissimo di smart cities. Per questa grande attenzione ci sono, a mio parere, due motivi.

Il primo è strutturale: le città sono il nostro futuro come specie. Già ora, e per la prima volta nella storia dell’umanità, oltre metà della popolazione mondiale vive in città. Ogni settimana, 1.3 milioni di persone si trasferiscono  in città dalle campagne del pianeta Terra. Ha molto senso che applichiamo la nostra intelligenza al nostro habitat numero uno.

Il secondo è contingente: il Governo ha messo sul piatto oltre 600 milioni di euro per progetti di ricerca e intervento volti a “risolvere problemi di scala urbana e metropolitana” in ambiti come sicurezza, invecchiamento, tecnologie per il welfare, domotica, smart grids eccetera.

L’interferenza tra i due fa sì che l’espressione “smart cities” venga intesa nei modi più diversi. Semplificando un po’, ma neanche troppo, le proposte più importanti sono due. La prima (anche nel senso che è stata la prima in ordine di tempo) è associata ad alcune grandi imprese: IBM, Cisco, ma anche Google con progetti come Latitude. L’idea è quella di usare sensori collegati in rete per aumentare la densità del flusso di informazioni che le città ci passano, adattandovi i nostri comportamenti e usandolo per riprogettare e migliorare i luoghi in cui viviamo. La riprogettazione doterà il territorio di nuove infrastrutture, ad esempio: le colonnine per la ricarica delle batterie delle auto elettriche, a loro volta collegate a nuovi sensori. I sensori più importanti sono a bordo dei nostri smartphone, che riversano in continuazione in grandi basi dati informazioni sul mondo che ci circonda. Al centro di questa visione stanno tecnologie e interdipendenza: il suo simbolo è la famosa Copenhagen Wheel del MIT.

La seconda proposta è associata alla cultura hacker e al mondo dell’innovazione sociale. L’idea è quella di riprogettare le città per renderle più comode, semplici, sostenibili anche economicamente. Qualche volta questo implicherà l’introduzione di tecnologie più avanzate di quelle attuali (per esempio il microsolare, illuminazione pubblica a LED); altre volte spingerà soluzioni low tech (la bicicletta, l’agricoltura urbana). Al centro di questa visione stanno relazioni sociali, costruzione di comunità e consapevolezza della fragilità dell’ambiente naturale che circonda le città costruite da homo sapiens. Il suo simbolo è la Ciclofficina.

La prima proposta schiera tecnologie avanzate, design curato, ricercatori di riconosciuta eccellenza. Tutti i pezzi, presi singolarmente, sono smart. Eppure accade una cosa strana: una volta messe insieme, le parti danno vita a un intero (la città) che a me non pare smart per niente. Prendete le auto elettriche. Sono silenziose e non emettono gas di scarico. Ma:

  • l’energia elettrica con cui ricaricarle deve venire prodotta in qualche modo. In un mondo in cui le sorgenti idroelettriche sono già sostanzialmente sfruttate e il nucleare è politicamente inaccessibile, aggiungere potenza installata vuole dire bruciare idrocarburi. Le emissioni delle auto, quindi, non vengono eliminate, ma solo spostate. Le emissioni possono diminuire o aumentare a seconda delle caratteristiche delle centrali esistenti e della rete; le centrali a idrocarburi disperdono in calore il 50% dell’energia derivante dalla combustione; un altro 5% viene disperso nella rete elettrica durante il trasporto (fonte). Dunque, di 100 KW imprigionati nel gasolio, solo 45 arrivano alla batteria dell’auto elettrica.
  • richiedono una costosa infrastruttura.
  • le auto elettriche sono auto: ripropongono l’idea che occorre associare a ogni essere umano una scatola di latta di quattro metri per uno e mezzo per uno, che viene usata in media un’ora al giorno e occupa prezioso territorio urbano per le altre ventitré. Quindi non risolvono i problemi di mobilità – anzi, li aggravano, visto che possono entrare nelle zone a traffico limitato.
  • sono una tecnologia non permissiva. Non puoi modificarle, non puoi caricarle in altro modo che non collegandoti alla rete elettrica. Ci confinano in ruolo passivo – lo stesso che abbiamo con le auto a combustione interna.

Prendiamo, invece, una soluzione alla mobilità apparentemente meno innovativa: le congestion charges, cioè quei provvedimenti che obbligano chi accede in auto al centro cittadino a pagare una tariffa. L’esempio italiano più noto è quello dell’Area C del Comune di Milano. I risultati di Area C parlano da soli: riduzione degli ingressi del 34% (49% per i mezzi più inquinanti), aumento della velocità commerciale dei mezzi pubblici del 5%; riduzione degli incidenti stradali del 24% dei ferimenti del 24%; riduzione dei principali agenti inquinanti dal 15% al 23% (fonte).

Ma il più grande vantaggio di Area C, a ben vedere, è che crea spazio invece di occuparlo. In prospettiva, rende disponibili le vie del centro come piattaforma per l’interazione sociale, il gioco, il commercio, la ristorazione, l’innovazione negli stili di vita. Non dovendo dedicare la maggior parte della loro superficie alle auto, veloci e pericolose, le persone possono provare a spostarsi con le biciclette, i rollerblade, di corsa. Hobbyisti di talento e artigiani della meccanica possono dare vita a nuovi ecosistemi attorno alla mobilità urbana leggera: nei paesi che hanno già fatto questa transizione si vedono biciclette con trailers, biciclette con pianali di carico per il piccolo trasporto merci. Si vedono bambini che possono andare a scuola da soli, liberi dalla minaccia delle auto.

Quindi, cosa vuol dire smart in smart city? Le due visioni che ho provato a raccontarvi si non sono chiaramente distinte nel dibattito corrente. A me, però, sembra che siano non solo diverse, ma contrapposte. La smart city del primo tipo ha una vocazione centralista: tutta l’intelligenza è concentrata nei tecnologi delle imprese e delle università, e ai cittadini resta il ruolo di consumatori dei vari gadget. Quella del secondo tipo guarda alla decentralizzazione spinta: crea spazio, e promuove la creatività di tutti. La smart city del primo tipo usa algoritmi di profilazione e il tuo smartphone per segnalarti che sei vicino a un negozio che vende abiti del tuo stilista preferito. Quella del secondo tipo è piena di gruppi di acquisto solidale, orti urbani, sewing café, hackerspace, fablab. La smart city del primo tipo fa grandi investimenti in telefonia cellulare ultraveloce. Quella del secondo tipo evoca quasi dal nulla reti wi-fi cittadine utilizzando come hotspot i router delle nostre case, dei bar, delle biblioteche (come fa a Milano GreenGeek). Nella smart city del primo tipo gli studenti vanno a scuola con i tablet. In quella del secondo tipo usano materiali didattici in creative commons – e probabilmente possono scegliere se ascoltare la lezione dal loro professore in aula o dalla Khan Academy o OilProject in video. La smart city del primo tipo delega le attività produttive (agricoltura, industria, finanza) a grandi imprese strutturate per sfruttare i vantaggi di scala. Quella del secondo tipo le distribuisce, almeno in parte, tra tante piccole esperienze: permacoltori, makers, community lending.

Si sarà capito che io trovo molto più smart e più moderna l’idea di decentrare. Ma c’è un problema: quasi tutto quello che è smart in questo senso riduce il PIL. Se i mezzi pubblici funzionano meglio, più gente li usa: il traffico si riduce, ma si riduce anche il consumo di automobili e di benzina. Se le persone fanno più sport e si ammalano di meno il PIL si riduce (la sanità è un business immenso). L’AreaC, riducendo gli incidenti stradali, riduce il PIL, riducendo il ricorso a medici, fisioterapisti, carrozzieri. Le smart cities del primo tipo non hanno questo problema: la Copenhagen Wheel costa 600 dollari, e per funzionare richiede anche un iPhone (oltre alla bicicletta), tanto che il Guardian si è chiesto cosa ci fosse di smart nel mettere oltre mille euro di elettronica sofisticata su una bicicletta, un oggetto facile da rubare.

La scelta di centralizzazione piace molto alle imprese. È comprensibile, perché consegna loro una forte centralità e modalità chiare per monetizzare. Non ho dubbi che saranno loro le protagoniste nella vicenda del famoso bando dal governo. Eppure, ho l’impressione che negli ultimi mesi si cominci a sentire anche la voce dei sostenitori di soluzioni decentralizzate – che viene, come al solito, dal più decentralizzato dei luoghi, cioè da Internet.

L’aspetto affascinante della discussione sulle smart cities è che ci costringono a farci le domande che contano davvero. Cosa misura davvero il PIL? Cos’è veramente questa crescita che cerchiamo di stimolare? Come vogliamo vivere insieme nelle nostre città? Comunque andrà a finire, spero che ci prenderemo il tempo e le energie mentali per andare a fondo della discussione. Non capita tutti i giorni di prendere decisioni collettive così ad ampio raggio, che ci costringono a chiederci davvero cosa vogliamo, e come vogliamo vivere insieme. Per cogliere pienamente questa occasione, spero che i primi sensori delle nuove smart cities saranno sensori di ascolto della voce dei cittadini (e intendo gli individui, non solo gli stakeholders); e che le loro prime tecnologie abilitanti siano ambienti accoglienti e orientati all’argomentazione razionale, collocati sia online che offline, in cui prendere insieme le decisioni del caso. Il primo spazio da decentralizzare è proprio quello della decisione pubblica, dove la decentralizzazione si chiama democrazia.

Area C a Milano: la conversazione che converge


Area C è un’iniziativa del Comune di Milano, simile in parte alla congestion charge di Londra: si paga per entrare in centro in automobile. Riassunto delle puntate precedenti: la giunta Moratti aveva istituito in via sperimentale un’iniziativa simile, chiamata Ecopass. Alla fine della sperimentazione, con le elezioni comunali in vista, il sindaco aveva rinviato la decisione di mantenere o eliminare Ecopass. Dopo le elezioni del 2011, la giunta Pisapia ha messo mano al suo rilancio, come aveva promesso in campagna elettorale.

Il Comune ha aperto un gruppo ufficiale di Area C su Facebook. È una mossa insolita, ma molto sensata: in una città in cui tutti o quasi sono automobilisti, limitare la libertà di circolazione delle auto genera dissensi. L’idea era probabilmente di limitare il danno, incanalando il malcontento in uno spazio presidiato, moderabile e in cui il Comune avesse una voce. Circa mille persone sono entrate nel gruppo.

E poi è successo qualcosa di inaspettato.

Primo, parecchie persone si sono schierate a favore dell’Area C. C’è perfino un gruppo che ne rivendica l’estensione a mezza città: perché i ricchi abitanti del centro dovrebbero essere gli unici a godersi un traffico ridotto? Lo vogliamo anche noi. A pensarci, ha senso: i processi partecipativi tradizionali (offline) sono costosi e faticosi: devi attraversare la città in orario di lavoro per partecipare a noiose riunioni. Gli unici che lo fanno sono quelli che hanno interessi economici diretti in gioco – e perfino loro tendono a delegare lobbisti. Quindi, ogni volta che una città prova a pedonalizzare il suo centro cerca il confronto con i cittadini, ma finisce per trovarsi davanti la lobby dei commercianti. Ma questa è Internet: è sempre accesa, puoi partecipare da casa tua a mezzanotte se vuoi. La soglia della partecipazione è così tanto più bassa per Area C di quanto non fosse per Ecopass che nel dibattito sulla seconda senti chiaramente la voce dei pedoni, dei ciclisti, delle mamme con bambini piccoli, perfino della minoranza di commercianti a favore del provvedimento. Il Comune – rappresentato nel gruppo da un utente chiaramente identicabile come istituzionale che si chiama “Moderatore Area C” – ha reinventato il proprio ruolo nel dibattito di conseguenza: il suo lavoro non è più vendere Area C ai cittadini, perché questo viene fatto da altri cittadini. È, piuttosto, fare domande (“qualcuno ha provato ad accedere pagando con il Telepass? Funziona bene il servizio? Come avete trovato la prima domenica senza auto?”); fare rispettare le norme di buon comportamento; fornire links con conoscenza fattuale (“ecco i dati: la velocità media dei mezzi pubblici è cresciuta del 22% nei primi due mesi”)

Secondo, la qualità della conversazione è cresciuta molto. Gli scontri tra pro e contro sono diminuiti: i contributi che contengono fatti e proposte, a prima vista, sembrano attirare molti più Like e commenti, e questo ha indirizzato la comunità emergente di Area C verso un monitoraggio dell’iniziativa letteralmente strada per strada. Il traffico è diminuito in via X; è diventato impossibile parcheggiare in piazza Y, a ridosso di Area C; e così via. La gente fa fotografie con il telefono e le carica per comprovare le proprie osservazioni. La conversazione può essere tesa: alcuni partecipanti caricano fotografie di automobili in rovina dopo incidenti stradali con aggiornamenti di status tipo “ecco, questi sono i risultati della cultura dell’automobile”. Ma non supera quasi mai i confini della buona educazione (i moderatori hanno dovuto espellere alcuni trolls nei primi giorni, per dimostrare che insulti e volgarità non erano tollerati). Le persone che scrivono cose sensate e condividono informazioni fattuali sono apprezzate. Una delle stars delle comunità è Davide Davs, a cui piace scaricarsi i dati sull’inquinamento atmosferico dal sito dell’ARPA per costruire grafici colorati con cui paragona i risultati di Area C con quelli di Ecopass rispetto a vari agenti inquinanti. Davide è un venticinquenne, viene da Foggia, lavora a Milano. È il tipico citizen expert che emerge da una comunità online ben progettata – e che non verrebbe mai invitato a un tavolo di stakeholders, perché non c’è modo di sapere che esiste prima che lui stesso si faccia avanti, in un contesto che lo incoraggia a farlo.

In qualche settimana, il gruppo era passato dalla controversia Comune-cittadini alla controversia cittadini pro Area C-cittadini contro Area C alla valutazione informata dell’iniziativa. Il passo successivo era ovvio: proposte. E le proposte sono arrivate. Ne sono arrivate tante che l’amministrazione ha deciso di organizzare un evento, battezzato Traffic Camp, dove i cittadini potessero presentare le loro proposte, di nuovo senza bisogno di inviti e senza selezione (per presentare un’idea bastava scrivere il proprio nome e il titolo dell’intervento su un wiki). Si sono iscritte a parlare ben 47 persone, che hanno presentato mappe online che ottimizzano i persorci per i ciclisti, programmi di car sharing, corrieri che usano solo biciclette e molto altro. Il primo intervento è stato tenuto da Pierfrancesco Maran, il giovane assessore responsabile politico dell’iniziativa, che ha presentato ai suoi concittadini i primi risultati di Area C. Ho letto in rete che Traffic Camp è andato benissimo: sale piene, belle idee, buone vibrazioni.

Terzo, è diventato chiaro che i meriti e i limiti di Area C non erano mai stati il punto cruciale. La conversazione si è spostata. Tutti i partecipanti parlano invece di mobilità. Tutti concordano che qualunque soluzione realistica per i problemi di mobilità di Milano deve usare molti strumenti, e sia indurre che basarsi su modifiche dei comportamenti quotidiani dei cittadini. Tutti concordano che le biciclette sono una parte importante di qualunque soluzione. L’Area C, probabilmente, avrà vita breve: man mano che una soluzione emergerà, dovrà essere riprogettata in modo radicale in funzione della strada scelta. La domanda era sbagliata, ma l’unico modo di arrivare alla domanda giusta era farne una sbagliata strutturare un ambiente di interazione aperto, orientato alla conoscenza e presidiato dall’istituzione e lasciare che i cittadini, grazie alla conversazione, trovassero il vero nodo del problema.

Nel mio libro Wikicrazia ho sostenuto che le conversazioni online convergono: se i valori della comunità e le regole sociali sono quelli giusti, verrà raggiunta una conclusione condivisa. È un punto essenziale: se proponi a un decisore pubblico di usare Internet come canale per la partecipazione democratica, devi convincerlo che le loro iniziative di partecipazione non verranno rovinate da troll che fanno a gara a chi urla più forte, con il risultato di allontanare tutti i cittadini che vogliono contribuire in modo costruttivo. Ho provato a sostenere che i meccanismi di una conversazione online ben strutturata premiano i contributori di valore come Davide Davs con l’attenzione della comunità ed effetti reputazione. Fa sempre piacere vedere qualcuno che mostra che ho avuto ragione.

E considerate: tutto questo si è svolto in tre mesi, e ha richiesto ben poco a parte il lavoro e l’intelligenza di un community manager (Pietro Pannone) e due strateghi (Alessio Baù e Paola Bonini, tutti di Hagakure). Un altro paio di progetti così e i processi partecipativi tradizionali (con la riunione degli stakeholders offline) saranno diventati una strada impercorribile. Per quanto mi riguarda, non ne sentirò la mancanza: la partecipazione sarà diventata molto più facile per chi non può permettersi di assumere lobbisti. Che siamo poi tutti noi.