Su Wired di dicembre, arrivato molto in ritardo causa vacanze, c’è un articolo interessante sulle strategie tecnologiche di Universal Music, la più major delle majors del disco. La buona notizia: c’è una strategia, e prende atto almeno di alcuni dei cambiamenti sociali degli anni 2000: per esempio, Amazon.con e altri siti sono stati autorizzati a vendere mp3 del catalogo Universal senza DRM (ma con un watermark, quindi fate attenzione…), una decisione già presa in precedenza da EMI. La cattiva notizia: secondo il commentatore, Seth Mnookin, questa strategia è eminentemente di breve periodo, e volta a estrarre dollari subito da chiunque si avvicini al catalogo dell’azienda. Questa non è una buona cosa al fine dello sviluppo di un nuovo ecosistema della musica basato su accesso aperto e interoperabilità , sul modello di ciò che è successo nell’open source o, per restare in tema di arte e creatività , della fotografia.
Mnookin sembra pensare che uno dei motivi per cui questo avviene è culturale: il CEO più illuminato che Universal abbia mai avuto, l’uomo che associa il suo nome all’attuale strategia digitale del gruppo, è Doug Morris, che (1) ha 68 anni e (2) è un “bona fide music man”, che ritiene che il suo lavoro sia essenzialmente di A&R: trovare grandi artisti e portarli al pubblico. Code lunghe alla Chris Anderson? Filtraggio sociale attraverso i tags? Non pervenuti. Il filtro lo devono fare i professionisti, perbacco. Per provare il punto, Mnookin pubblica una serie di foto di Morris con varie popstars, tra cui Paris Hilton, Rihanna e Sting.
Sempre tra i motivi culturali, l’articolo cita la confessata incompetenza tecnologica dell’industria. Perché Morris e i suoi colleghi hanno lasciato che Steve Jobs bloccasse i brani in vendita su Apple Music Store con Fair Play – interoperabilità zero – invece che imporgli un loro formato comune anche agli altri distributori online? “Nessuno ci ha pensato.” Perché nessuno ci ha pensato? “Nessuno noi capiva niente di tecnologia.” Perché non avete assunto qualcuno che ne sapesse e che fosse in grado di aiutarvi? “Perché, non sapendo niente di tecnologia, non siamo in grado di distinguere un esperto vero da un millantatore.” Buonanotte.
Conosco l’industria musicale dall’interno, e la conosco abbastanza bene da essere d’accordo sul fatto che ha molti problemi culturali a venire a patti con il digitale. Ma non credo che sia tutto qui. Ne parlavamo a eChallenges con Roger Wallis, che studia queste cose da una vita, e mi diceva che le quattro majors hanno il copyright sull’85% di tutta la musica mai registrata. Siccome le nuove produzioni costano sempre di più e vendono sempre di meno (un artista top italiano può costare 750Keuro tra anticipi e spese di produzione e marketing alla sua etichetta), il modello di business vincente è quello che lui chiama del patent troll: siediti sui tuoi diritti, ingaggia una squadra di avvocati cannibali e fai causa a tutti (Morris ha fatto causa a YouTube e MySpace). E intanto liberati dei dirigenti vecchia maniera, quelli centrati sulla ricerca e lo sviluppo di talenti, che costano molto e non portano più profitti all’azienda. Ormai nelle majors comandano gli avvocati, e questi sono mossi da una razionalità economica ineccepibile, anche se di breve periodo: estrarre più soldi che si può dal vigente sistema di copyright, finché si può. Quelli più convinti sono probabilmente quelli che stanno in EMI: l’azienda è stata acquisita nel 2007 dal fondo di private equity Terra Firma, e se il sistema comincia a crollare il fondo… la venderà e comprerà qualcosa di più remunerativo. Buonanotte, appunto.
Difficile sfuggire alla conclusione che il futuro della musica non abiti da queste parti.