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La legge del folk e il ritorno dei dinosauri

Anche dopo che tutti e tre abbiamo lasciato i Modena City Ramblers, Cisco, Giovanni ed io siamo rimasti amici. Abbiamo fatto insieme le cose che fanno gli amici; cene, scherzi, qualche discussione seria.

C’è una discussione che continua a riemergere negli anni. Cosa resta degli anni che abbiamo vissuto insieme più intensamente, i Novanta del secolo scorso? L’antimafia. Falcone e Borsellino. Mani Pulite. Il primo governo di centrosinistra della storia repubblicana. L’Europa che veniva unendosi. Per noi (e per molti altri) anche l’Irlanda, e l’Emilia, e la scoperta delle nostre radici contadine e resistenziali. Queste cose ci sono state, e sono state importanti. Per noi, lo sono ancora. Eppure, sembrano lontanissime nel tempo e nella cultura.

Prendete me. Abbandonata la musica, mi occupo ora di governo aperto e di innovazione sociale. Mi muovo tra hackers e istituzioni internazionali, tra scienza e pratiche sociali radicali. Nel mio ambiente, nessuno parla mai delle storie che hanno fatto la nostra storia (nostra nel senso degli italiani alla soglia dei cinquant’anni, e nostra anche nel senso di Cisco, Giovanni e me).  Sono difficili anche da raccontare. In vent’anni il mondo è cambiato così tanto che sono diventate incomprensibili, anche per noi. Abbiamo vinto? Abbiamo perso? Cosa ci rimane?

Eppure, raccontare si deve. Questo ho imparato, in cinquant’anni di vita, e venticinque di frequentazione del folk. Quando eravamo giovani, Cisco, Gio e io eravamo assetati di storie. Chiedevamo ai nostri nonni, alle persone anziane, per capire il periodo della guerra e della Resistenza oltre la storia ufficiale. Tempestavamo di domande i nostri amici più grandi per ricostruire le loro vite ai tempi della ribellione degli anni Settanta.

Ora siamo noi gli anziani. Abbiamo le storie. Abbiamo chi chiede di ascoltarle: figli, nipoti, giovani amici. La legge del folk dice che non abbiamo scuse: dobbiamo raccontare.

Raccontare come? Questo è facile. Il nostro linguaggio comune è la musica folk. E quindi, Gio ha staccato la chitarra dal chiodo a cui l’aveva appesa. Io ho soffiato via la polvere dalla fisarmonica. Cisco ha preso una pausa nella sua carriera solista. Facciamo un nuovo album, il primo insieme in questo millennio.

Giovanni ha scritto una raffica di pezzi uno più bello dell’altro, di quelli che si possono scrivere solo a questa età. Ha catturato benissimo il mix di disincanto e orgoglio che sento nell’aria tra i miei coetanei. Il disincanto per le tante battaglie perse; l’orgoglio per ritrovarci ancora, nonostante tutto, in piedi, con l’anima ammaccata ma non svenduta. L’album si intitolerà I dinosauri, perché ci sentiamo come loro. Strane creature da un passato remoto, che hanno lasciato impronte misteriose nel mondo in cui, oggi, viviamo.  Due vecchi amici del tempo dei Modena City Ramblers, Kaba Cavazzuti e Massimo Giuntini, ci aiutano in veste di produttori artistici.

Naturalmente, I dinosauri sarà un progetto con pochissimo potenziale commerciale. Un disco acustico fatto da cinquantenni, che non vanno in televisione? Non lo proporremo nemmeno alle etichette discografiche. Lo produrremo con una campagna di crowdfunding, e se mancheranno dei soldi li metteremo noi. Il folk ci ha salvato la vita venticinque anni fa. È il momento di fare la nostra parte.

Più informazioni si trovano qui.

 

Con i Modena City Ramblers nel 1997

Sign o’ the times: la morte del rock e l’addio di XL di Repubblica

In una vita precedente facevo il musicista rock, e ricordo bene l’interesse professionale con cui il mio ambiente di lavoro accolse XL, e prima ancora il suo antesignano, Musica. La stampa musicale italiana (tipo Il Mucchio o Buscadero, non so se esistano ancora) metteva la band di cui facevo parte allora in una situazione imbarazzante: vendevamo molti più CD noi di quante copie vendessero loro, e quindi non era chiaro chi stesse promuovendo chi. Ma Musica prima e XL poi significavano Repubblica: una vera corazzata editoriale, che prometteva numeri molto diversi da quelli delle riviste di settore. A ogni uscita, tutti gli artisti italiani stavano molto attenti a presidiare il musicale di Repubblica. Negli anni, queste riviste si sono occupate anche dei miei progetti musicali.

XL chiude – più esattamente, scompare la rivista di carta, mentre sopravvive il sito. La tempesta perfetta digitale, la crisi dei modelli editoriali tradizionali, eccetera. Io questo lo so perché di recente ho rilasciato un’intervista a Paolo Campana (io lo conosco come blogger, ma è anche giornalista) che è finita proprio sull’ultimo numero di XL. La copertina mostra Lou Reed, e annuncia che “Il rock è morto”. Alla mia intervista hanno dato il titolo “Per cambiare il mondo il rock non basta più”.

Niente di nuovo, certo. Stiamo parlando di mutamenti sociali che tutti avvertiamo, e che per me sono stati così urgenti e profondi da spingermi a cambiare completamente vita, come ho scritto nell’introduzione a Wikicrazia.  Ma la coincidenza mi tocca il cuore. Torno con una nuova veste su una testata che anni fa parlava della mia musica; ci torno per dire “non è più tempo di occuparsi di questa roba”; e nello stesso numero quella testata alza bandiera bianca e si trasferisce sul web. Mi è venuto in mente che sono stato molto, molto fortunato: ho accompagnato l’onda della musica ribelle dei 90, in un momento in cui il mondo, e in particolare l’Italia, sembravano cambiare per il meglio (ricordate?); poi ho avvertito la fine di quella stagione, e mi sono avventurato sull’Internet sociale, riprendendo i miei studi di economia per arrivare alle scienze della complessità. Più di vent’anni dopo Riportando tutto a casa ho idee confuse e poche certezze, ma non mi sento (ancora) completamente smarrito e future shocked, né mi sono (ancora) ridotto alla nostalgia e al “come eravamo”. Davvero, alla mezza età non potrei chiedere di più.

 

La fine della musica 2: altri tre chiodi nella bara del music business

I miei amici musicisti sentono una crisi che va molto al di là della Grande Crisi del 2008, che è brutta ma si può sperare che a un certo punto passi. Quella del music business non credo proprio che passerà in tempi brevi, e neppure medi. Ecco tre segni del declino che ho trovato in rete negli ultimi mesi:

  1. Il grafico qui sopra. Il mercato della musica registrata negli USA ha perso oltre metà del suo valore, passando dai 15 miliardi di dollari del 1999 ai 6 del 2009. Dave Kusek, nel commentarlo, è perentorio: non c’è ripresa da questo declino. Ed è un’ammissione bruciante da un blog che si chiama “the future of music”.
  2. Questa infografica. Per guadagnare il salario minimo vigente negli USA (cioè 1.160$, meno di mille euro), un musicista dovrebbe generare 1.229 download di album da iTunes, 849.000 ascolti in streaming su Rhapsody e quattro milioni e mezzo di ascolti in streaming su Spotify. Sarebbe interessante calcolare quanti ascolti in streaming servono per raggiungere il reddito degli U2, che hanno 70 dipendenti a tempo pieno e una società immobiliare.
  3. Questo post di Dave Kusek, in cui alle aspiranti rockstar viene proposto di coltivare il circuito degli home concerts. Sensatissimo, per carità, ma è proprio la descrizione della situazione che rende appetibili gli home concerts ad essere deprimente:

    la maggior parte degli artisti, a prescindere dal talento, è fortunata se attira 30-40 persone quando suona in un posto nuovo. Le risorse necessarie per superare questi numeri sono sempre più costose e meno efficaci […] chiedete a qualunque artista quanti spettatori paganti vale un bell’articolo sul giornale: pochi o nessuno.”

    Il problema, spiega Kusek, è che i locali notturni sentono la concorrenza dei videogiochi e degli altri sistemi di home entertainment, e reagiscono diversificando: cioè riempiendo i locali stessi di macchine da videopoker, tavoli da biliardo e altre attrazioni, che competono con il concerto per l’attenzione del pubblico.

    I musicisti (che sembrano non avere altra scelta) sono contenti di venire [nei locali], montare gli strumenti e suonare per un pubblico distratto e ingrato, constringendo i loro fans a sentirsi un concerto mentre gli altri clienti, ubriachi, gridano per l’ultimo touchdown.

    Se Kusek ha ragione, gli home concerts non sembrano un rimedio all’altezza del problema: sono un modo divertente di passare una serata con gli amici, non un nuovo mercato che rimpiazza quello vecchio.

La musica in quanto espressione culturale – sebbene io la senta in crisi, come ho già scritto – è stata con la nostra specie per molto, molto tempo, e tutto fa pensare che resterà con noi. Ma il music business come l’abbiamo conosciuto a partire dalla fine degli anni 40, temo, è incamminato verso l’estinzione.