Mentre mi preparo per Policy Making 2.0, mi chiedo se non ci stiamo perdendo un pezzo importante. L’approccio basato su tecnologia, modelli scientificamente fondati e appoggiati su grandi basi dati va benissimo, ci mancherebbe. Eppure, tecnologia, modellizzazione e data crunching sono solo la ciliegina sulla torta delle politiche pubbliche: il loro uso è inevitabilmente orientato dalla visione del mondo del policy maker. E sospetto che sia il momento di fare un tagliando serio alla visione predominante.
A mio modo di vedere, la grande maggioranza dei decisori, di qualunque colore politico, accetta un modello lineare per le politiche pubbliche. Un problema entra nel dibattito politico; un approccio al suo trattamento viene individuato e validato dal processo democratico; i rappresentanti politici lo incorporano nella legislazione; la legislazione viene messa su strada dal ramo esecutivo, in modo da ottenere l’effetto desiderato. Il modello lineare può sembrare ragionevole, e perfino evidence based se il processo di individuarne una soluzione è basato sull’elaborazione di dati. Ma funziona solo se la società è come una macchina: relativamente semplice e trattabile, senza troppi feedback ed effetti di secondo ordine. Se credi che questa sia una ragionevole approssimazione della realtà, il modello lineare ti sembrerà un ottimo strumento. L’economia standard, per esempio, è su questa posizione: ho frequentato corsi in cui la politica ottimale viene calcolata massimizzando una funzione di benessere sociale, a sua volta ottenuta aggregando le funzioni di benessere (per tradizione chiamate “di utilità”) individuali. Se l’economia non si trova al punto di massimo di questa funzione, può esservi guidata dal policy maker, manipolando il sistema dei prezzi (con tasse e sussidi), il livello di attività economica (con tasse e spesa pubblica finanziata da deficit), i vincoli finanziari degli agenti economici (con la fissazione del tasso di sconto, il quantitative easing, i coefficienti di riserva obbligatoria) e la regolamentazione (come l’imposizione di standards).
Se, come me, credi che viviamo in un mondo fortemente nonlineare, che somiglia più a un ecosistema che a una macchina, e che si capisce meglio rappresentandolo come un sistema complesso, allora il modello lineare non ti sembrerà adeguato. Parimenti, i suoi strumenti – tasse, sussidi, spesa pubblica, politica monetaria, regolamentazione – ti sembreranno instabili e pericolosi.
Non è solo questione di cose che non funzionano. Mi sto convincendo che usare questi strumenti possa essere dannoso. Nel tentare di correggere una distorsione, lo stato applica una pressione in direzione opposta alla distorsione. Ma spesso l’intervento dello stato induce una riorganizzazione dell’economia, conseguenza del mutato comportamento dei singoli agenti che ora tengono conto dell’azione dello stato nel prendere le loro decisioni, e naturalmente cercano di volgere questa azione a loro vantaggio. Un esempio con la regolamentazione: uno stato tenta di rendere le assunzioni temporanee più costose, per indurre le imprese ad assumere a tempo indeterminato. Ma le imprese potrebbero rispondere facendo pressione per indurre i loro dipendenti a tempo determinato ad aprire partite IVA, trasformando lavoratori in fornitori di servizi. Risultato: ancora meno stabilità per le persone in questione. Un altro esempio, relativo alla spesa pubblica: uno stato decide di incoraggiare la ricerca e sviluppo finanziando progetti di ricerca condivisi tra imprese e università. Ma le imprese, quando percepiscono un’opportunità di profitto, tipicamente non aspettano finanziamenti pubblici: investono e basta. Più tardi, se possono, cercheranno di ottenere il finanziamento per cose che hanno già fatto – spostando il costo della ricerca e sviluppo sul contribuente senza necessariamente generare nuovi prodotti addizionali. Risultato netto: molte domande di contributo (spesso con costi amministrativi alti), ma pochi nuovi prodotti.
Entrambi gli esempi – a meno di aspetti tecnici comunque importanti – sono applicabili all’Italia. La distorsione dell’economia sotto il peso di una massiccia spesa pubblica si vede a occhio nudo: parlate con giovani intelligenti e imprenditoriali nel Mezzogiorno, e probabilmente scoprirete che conoscono i programmi più importanti del Fondo Sociale Europeo, il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale e le loro controparti nazionali. Una quantità sconfortante del loro tempo viene spesa nel cercare di interpretare i desiderata dei finanziatori pubblici, e nel compilare formulari con tutte le parole chiave giuste. E perché no? È il gioco più grosso in città. In Italia, il Quadro Strategico Nazionale stanzia 125 miliardi di euro per lo sviluppo economico sul periodo 2007-2013 (fonte, p. 236). Per darvi un punto di riferimento, il flusso di prestiti della Banca Mondiale in tutto il mondo ammonta a meno di 200 miliardi (fonte – la pagina, spero che il webmaster non la cambi, perché non trovo il link diretto al grafico).
Sui 125, 101 miliardi sono concentrati in quattro regioni del Mezzogiorno, perché è lì che – correttamente – vengono percepiti i maggiori problemi. In Italia sono le regioni i principali agenti di spesa: questa ripartizione significa che le regioni in questione devono accollarsi il lavoro amministrativo per finanziare, in modo corretto e trasparente, progetti per 3.5 miliardi di euro all’anno, in media (ma in genere concentrati negli ultimi anni del ciclo di spesa) solo su progetti di sviluppo economico – mentre le rimanenti 16 regioni devono gestire “solo” 200 milioni all’anno. Il risultato è un ritardo cronico nella spesa delle regioni meno sviluppate, che faticano a gestire questo tsunami di denaro.
Questo spiega la distorsione negli incentivi che citavo prima. È vero che molta spesa pubblica finisce per passare attraverso canali tradizionali – reti consolidate di “old boys”, per non dire di peggio – ma ci sono talmente tanti soldi in ballo che molte delle menti più brillanti delle regioni del Mezzogiorno finiscono per passare moltissimo tempo a posizionarsi per cercare di portarne a casa un po’. Di recente, il mio amico Tiago Dias Miranda ha passato un po’ di tema in Basilicata e ha scritto:
[…] una delle prime cose che mi hanno colpito è che tutti continuavano a parlare di bandi. All’inizio credevo che parlassero di gruppi musicali. Poi ho capito che si riferivano a bandi di gara per aggiudicarsi risorse pubbliche […] A meno che non mi sia perso un pezzo molto importante questo territorio è pesantemente sussidiato, come se fosse un paese in via di sviluppo che riceve donazioni dai ricchi del mondo.
Molte persone, sia dentro che fuori le istituzioni pubbliche, sono consapevoli di questi effetti avversi della spesa pubblica, ma la vedono come un male necessario. “Dobbiamo fare qualcosa per le regioni in ritardo – dicono – Questo modo di agire sarà inefficiente, ma è un passo nella direzione giusta, perché porta lavoro e opportunità”. Ma c’è un problema: questo argomento è valido solo nell’ambito del modello lineare. Se l’economia è abbastanza complessa, entrano in gioco effetti di auto-organizzazione. In quei territori le persone provano diverse strategie (in Basilicata, per esempio, molti stanno sperimentando con servizi turistici), fanno piccoli esperimenti e imparano dai loro risultati. Qualche meccanismo di selezione, funzionalmente equivalente a quello che la selezione naturale fa per l’evoluzione, premia le strategie che hanno funzionato e punisce quelle che hanno fallito. Le prime vengono imitate e si diffondono; le seconde vengono lasciate cadere. Questo dà al sistema qualche capacità di autoripararazione – a meno che un’iniezione di denaro pubblico mantenga l’attenzione delle persone più brillanti concentrata sul problema (sbagliato) di capire come presentare proposte vincenti ai vari bandi.
L’osservazione di Tiago che in Basilicata “tutti continuano a parlare di bandi” implica che, in una situazione diversa, le stesse persone parlerebbero di cose diverse. Forse farebbero aziende; forse emigrerebbero; forse occuperebbero edifici abbandonati. Invece non lo fanno, e questo danneggia l’economia e la società locale, spingendole in una spirale di dipendenza. In medicina questa si chiamerebbe iatrogenesi: l’azione del medico che fa peggiorare le condizioni del paziente.
Queste osservazioni non sono nuove. Dambisa Moyo e altri hanno argomentato che troppa spesa pubblica – pur con le migliori intenzioni – può danneggiare un’economia locale. Ma sono pur sempre controintuitive, e non sono entrate a fare parte del senso comune. In Italia, certamente, il discorso politico ruota tutto intorno a quante risorse si possono ammassare a sostegno di quale obiettivo. Ripetere, in questo caso, ha un senso.
Ma come possiamo operazionalizzare queste intuizioni? In prima battuta, io farei le seguenti cose:
- diagnosticare quando un’economia locale è sufficientemente complessa per trovare un cammino di adattamento, miglioramento e crescita. Questo è più difficile di quanto sembra, perché si deve scegliere il livello appropriato per l’analisi, e qualunque livello si scelga tipicamente ci saranno vincitori e perdenti all’interno del livello. Per esempio, l’Italia è decisamente abbastanza grande e complessa per esibire comportamenti interessanti, ma storicamente tende a concentrare le dinamiche virtuose al nord, mentre le regioni del sud sono rimaste più indietro. Se si scende al livello della singola regione, si trovano quasi sempre aree più dinamiche e aree meno.
- suggerire strumenti che si prestano bene a un approccio imperniato sul “non fare danno” (come nel giuramento di Ippocrate); strumenti che incorporano l’idea che si sta intervenendo su un sistema adattivo complesso, non su materia inerte o su una semplice macchina.
Modalità di diagnosi e strumenti di intervento saranno l’oggetto di un prossimo post.