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Perché non mi piace parlare di politica: gli open data e il nostro futuro comune

Non mi sento quasi mai a mio agio nel discutere di politica. Il modo in cui decidiamo sul nostro futuro comune mi sembra qualche volta completamente fuori centro: si parla delle personalità dei leaders invece che delle loro politiche. Le stesse politiche sembrano assumere connotati molto diversi a seconda di chi le propone: i “nostri” tagli di bilancio sono un’assennata misura di controllo degli sprechi, mentre quelli degli avversari sono stangate indiscriminate su servizi essenziali. Il tutto è decisamente troppo emotivo; troppo perché votare “di pancia” rischia di avere conseguenze gravi (chi fosse interessato può leggersi Il mito dell’elettore razionale di Bryan Caplan). Nel corso della recente campagna referendaria, per esempio, si è parlato molto poco di energia nucleare e di modelli di gestione dell’acqua: hanno prevalso affermazioni vaghe ed emotive come “non mi fido di questo paese” (ma la usi la sanità pubblica? La scuola? Le autostrade?) o “restituiamo il futuro ai nostri figli” (nel senso di usare il nucleare perché produce meno gas di serra o di usare più carbone e petrolio perché non sono radioattivi?).

Mi sono fatto l’idea che i dati in formato aperto potrebbero essere un elemento di riequilibrio della discussione. Non solo i dati contengono fatti, ma discutere sull’interpretazione dei dati conduce ad analisi sempre più sofisticate: “guarda, il PIL è cresciuto molto più sotto il governo dei Grigi del misero 0.3% all’anno dell’amministrazione dei Colorati!” “Vero, ma considera che gli anni di amministrazione dei Colorati hanno coinciso con una depressione mondiale. L’indicatore giusto è il differenziale di crescita tra il nostro paese e la media mondiale, ed esso rende giustizia alla sagge politiche di rilancio condotte dai Colorati.” Per prevalere, i duellanti sono costretti a confrontarsi con il dato. Cosa misura veramente? Come interpretarlo?

Perché questo succeda, naturalmente, i dati sono essenziali, ma non sufficienti: ci vuole anche una fetta di opinione pubblica, per quanto minoritaria, che sappia usarli per costruire storie sul nostro vivere insieme e proporle alla discussione comune. In mancanza di questo i dati possono venire usati male, o branditi come armi, e diventare strumenti di riduzione della qualità del dibattito. È per questo che sto nel movimento open data, e, in quel movimento, mi sono autoassegnato il ruolo di proporre iniziative di stimolo della domanda di dati e data literacy. Nel video qui sopra (20 minuti) provo a spiegare meglio la mia posizione.