In North Carolina un bambino su venti non va mai a scuola: viene istruito a casa. Gli americani lo chiamano “home schooling”. Secondo lo studioso Brian Ray, i bambini in questa situazione negli USA sono passati da circa 12.000 a oltre due milioni in 25 anni. La cosa è diventata socialmente molto più accettabile.
Non credo sia un caso. La scuola serve a fare tre cose: istruire i bambini; socializzarli alla vita in comune; parcheggiarli intanto che mamma e papà vanno al lavoro. Questi tre ruoli sono molto importanti, ma non mi è affatto chiaro che debbano essere svolti dalla stessa istituzione. In particolare da questa istituzione.
Dal lato istruzione, la scuola è progettata per preparare i giovani a prendere posto in un’economia che non c’è più, quella industriale e tayloristica novecentesca. Come dice sir Ken Robinson nel video qui sopra, è organizzata come una fabbrica o una caserma, con campanelle che segnano gli orari, dipartimenti separati (scienze vs. discipline umanistiche), e produce “lotti” di diplomati nel modo più standardizzato possibile. La didattica è figlia dell’organizzazione e non, come dovrebbe essere, viceversa: i nostri figli fanno l’ora di matematica, per esempio, perché l’insegnante entra in classe, saluta, appende il cappotto, apre il registro etc., e così se ne vanno cinque-dieci minuti. Ma l’unità naturale per l’apprendimento della matematica è il teorema, o la derivazione della formula, non l’ora. E in effetti, le (bellissime!) lezioni della Khan Academy – uno dei progetti “world changing” finanziati da Google – durano dai sei ai quindici minuti, con qualche eccezione, e si prendono tutto il tempo di spiegare bene le cose, passaggio per passaggio. Ma c’è di peggio: la scuola ti insegna che la risposta giusta a qualunque problema è solo una: sta alla fine del libro, nelle soluzioni agli esercizi – il che è evidentemente falso. E che non si deve copiare, perché questo vuol dire barare. Ah sì? Lavorare insieme su un problema, fuori dalla scuola, si chiama collaborazione: è il motore della nostra economia, della scienza, di tutto.
Mi pare chiaro che la scuola non svolge molto bene il compito di preparare i giovani alla loro vita professionale. Internet è un candidato più credibile: perché dovrei sciropparmi un insegnante mediocre e demotivato in un istituto di provincia quando ho la Khan Academy e i TED Talks? Tutti possiamo avere i migliori insegnanti del mondo. Possiamo interagire con una classe grande quanto il pianeta, in cui non importa quanti anni abbiamo e ciascuno fa progressi al proprio passo naturale, esplorando infinite combinazioni tra teoria e pratica. E non mi si dica che i bambini non imparano se non li costringi. I bambini sono naturalmente curiosi e desiderosi di imparare, dicono tutti i pedagoghi e gli psicologi cognitivi. La scuola riesce spesso a uccidere questo istinto, e già basterebbe questo per indurci a metterla seriamente in discussione.
Quanto al socializzare i bambini, la scuola fa un ottimo lavoro: insegna loro a non alzare la voce, arrivare in orario e così via. Di nuovo, però, la società a cui li si prepara è una società ottocentesca e gerarchica: i suoi valori sono l’obbedienza, la prevedibilità, la conformità allo standard. Per alcuni funziona bene, ma altri imparano l’ipocrisia, la codardia, il conformismo e l’opportunismo che poi, negli adulti, genera il meraviglioso mondo di Dilbert. Non sono un esperto, ma scommetterei che un veicolo migliore per la socializzazione è il rugby, ovviamente quello giocato. Ti insegna il duro lavoro, il senso di squadra, l’idea che tutti sono diversi e contribuiscono in modo diverso al successo comune, la passione per quello che fai, la correttezza. Con il terzo tempo, ti insegna la differenza tra avversari e nemici. E in più fa anche bene alla salute.
Al di là di istruzione e socializzazione, per la scuola resta ancora un ruolo fondamentale: il parcheggio per i figli. Di parcheggi c’è molto bisogno; probabilmente è questo il ruolo che rende alla maggior parte dei genitori un mondo senza scuola semplicemente inimmaginabile, e quindi ci rende più difficile riformare l’istruzione. Se questo è il core business, però, temo però che il futuro della scuola sia buio. Man mano che i genitori benestanti si renderanno conto che la scuola di oggi riduce le possibilità dei loro rampolli di avere successo nella vita, la diserteranno (come, appunto, succede negli USA); e siccome non usufruiranno del servizio, saranno molto restii a pagare le tasse per un servizio pubblico che non usano. Ci sarà una pressione sempre più forte a favore di soluzioni educative personalizzate e erogate dal settore privato, e le scuole pubbliche saranno sempre più trincerate nel ruolo di parcheggi per i figli dei poveri, sempre peggio finanziate, ridotte a toppa del sistema educativo. Non che io auspichi una soluzione del genere: se chiedete a me, io proporrei una riforma radicale dell’istruzione pensata per la società connessa. Ma quello che voi e io pensiamo non conta molto: come diceva John Brockman al Festival della scienza, le cose davvero importanti (la civiltà dell’automobile, la globalizzazione, il riscaldamento globale) non sono oggetto di scelta collettiva. Sono emergenti, e tutto quello che possiamo fare è adattarci per quanto siamo capaci.
Hat tip: Andrew Missingham
UPDATE – Bella coincidenza. I partecipanti alla sessione su “Il futuro dell’istruzione” a Mozilla Drumbeat 2010 (finito sabato) hanno prodotto questo video, in cui si dicono cose simili a quelle del mio post. Non perdetevi l’intervento secco di Massimo Banzi. (Hat tip: Nadia El-Imam)