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Dell’innovazione sociale (e la fine del mondo come lo conosciamo)

Nell’ultimo anno, in cui ho partecipato ad un gruppo di lavoro del Consiglio d’Europa che riflette su alcune tendenze emergenti dell’economia, mi sono fatto l’idea che l’innovazione sociale sia un fenomeno potenzialmente molto, molto importante. Certamente lo è abbastanza da curvare lo spazio mentale in cui mi muovo: qualunque percorso io segua, mi ci ritrovo sempre più coinvolto. L’ultima notizia – ma ho la sensazione che non sarà affatto l’ultima – è che la Young Foundation (un think tank inglese vicino al presidente della Commissione Europea Barroso, in assoluto l’organizzazione europea più attiva nel promuovere il concetto di social innovation) mi ha chiesto di partecipare all’advisory board della Social Innovation Initiative for Europe. Obiettivo di questo progetto è mettere in piedi l’hub della Commissione Europea per la comunità degli innovatori sociali, che, tra le altre cose, fornirà input per la progettazione del nuovo fondo europeo per l’innovazione sociale.

I fondi europei sono strumenti finanziari di grandi dimensioni per le politiche pubbliche, misurati in centinaia di milioni, se non miliardi, di euro. I criteri di allocazione di questi fondi tra gli stati membri e all’interno di ciascuno stato, sono oggetto di negoziati molto minuziosi e condotti ai massimi livelli delle pubbliche amministrazioni europee. Non accade tutti i giorni che la Commissione si metta a progettare un nuovo fondo: è evidente che qualcuno, al vertice, pensa che questo sia un tema decisivo.

Dal mio punto di osservazione come advisor del Consiglio d’Europa non è difficile capire quello che sta succedendo. I rappresentanti dei governi nel nostro gruppo sono molto preoccupati: il welfare state, cardine del modello europeo e ingrediente fondamentale della del capitalismo umanizzato proposto dal vecchio continente, è in preda ad una crisi fiscale irreversibile. Nessuno crede più che sarà possibile difendere il livello di prestazioni previdenziali e dei pubblici servizi. E non stiamo parlando di Grecia o Italia, per i quali si potrebbe forse parlare di cattiva gestione: i più preoccupati sono i governi dei paesi di welfare avanzato come l’Austria e la Norvegia, in cui l’opinione pubblica non accetterebbe mai una ritirata neppure parziale dall’attuale livello di pubblici servizi — ritirata che, tuttavia, è inevitabile.

Nessuno, però, parla più di privatizzazione. L’esperienza degli anni 80 parla chiaro: i servizi privatizzati non costano meno di quelli forniti dal settore pubblico, anzi. Ci sono molte ragioni per questa conclusione, ma una importante è questa: il settore privato entra solo dove può fare margini alti, altrimenti non è interessato. Qui entra in gioco l’innovazione sociale: la miscela di economia sociale (con un basso orientamento al profitto) e attitudine all’innovazione disruptive mutuata dalla Silicon Valley è, in questa fase, l’unico candidato a darci soluzioni che possano consentire di difendere il livello di servizi pubblici. “Difendere il livello di servizio” nel quadro finanziario attuale significa ridurne il costo unitario. E non del 3-5%: del 50%.

Non serve un genio per capire dove conduce questa cosa. Conduce a servizi pubblici smontati e rimontati in modo completamente diverso. La scuola? Video su Youtube stile Khan Academy invece di maestri in aula. La sanità? Forum online invece di file dal medico di base. L’università? Badges (alla Foursquare) concesse in modalità peer-to-peer che attestano competenze apprese informalmente sul web invece di lauree (ci sta lavorando la Mozilla Foundation). La progettazione delle policies? Wikicrazie invece di burocrazie weberiane professionali. Inutile dire che la transizione sarà molto complicata, e comporterà che moltissime persone che oggi lavorano nel settore pubblico risulteranno, per usare un termine non molto diplomatico, completamente inutili, perché sanno fare cose che non serviranno più e avranno ben poche possibilità di imparare a fare quelle che, invece, serviranno.

Il fondo che la Commissione Europea sta disegnando può risolvere al massimo metà del problema, quella di abilitare gli innovatori sociali a ripensare in modo radicale i servizi pubblici. L’altra metà è fare in modo che il patto sociale tenga, e che gli europei impauriti e arrabbiati non escano di casa a dare fuoco alle auto e ai bancomat (o ai loro vicini diversi da loro in qualunque modo). Per questo abbiamo bisogno di leadership politica di alto livello: il sistema attuale è stato messo in piedi da giganti del calibro di Bismarck (previdenza) e Lord Beveridge (welfare moderno). Speriamo di trovare una dirigenza alla loro altezza per questa fase.

On social innovation (and the end of the world as we know it)

In the last year, as I took part in a Council of Europe workgroup that tries to make sense of some emergent phenomena in the economy, I got the idea that social innovation is really, really important. Certainly important enough to curve the mental space I inhabit: whatever I do I seem get more and more entangled into it. The latest news – though not the last, I have a feeling – is that the Young Foundation, a British think tank close to the European Commission’s President Barroso and the single most active organization on the social innovation front, has enrolled me for the advisory board of the new Social Innovation Initiative for Europe. The projects’s objective is to create a social innovation community hub that, among other things, will provide input into the design of a new European social innovation fund.

European funds are large scale financial instruments for public policy. They are measured in hundreds of millions of euro, if not billions. Their allocation criteria among and within member states are the object of thorough negotiations, led by the highest ranking European public officials. The Commission does not design new funds every day: clearly, someone at the top thinks this is a very important matter.

From my vantage point as a Council of Europe advisor it is not hard to figure out what’s going on. The representative of the States in our group are worried silly: the welfare state, keystone of the European social model and staple ingredient of the Old Continent’s humanized version of capitalism, is crumbling before an irreversible fiscal crisis. No one believes the current level of public service provision is defensible within the current model. And no, it can’t be put down to ineffective management. We are not talking about Italy or Greece here: the most worried people I talked to come from advanced welfare countries like Austria or Norway, in which the public would never accept a retreat from the current service level – a retreat that, nevertheless, is coming.

Interestingly, though, no one is talking about privatization. We learned a lesson in the 80s, and that is that privatized public services are not necessarily any cheaper than those directly provided by the State. There are many reasons for this, and an important one is that the private for-profit sector wants to, well, make a profit. And that means high margins: if they are not there, private business is simply not interested. Here’s where social innovators gets to be given a chance; their blend of social economy (i.e. weak orientation to profit) and disruptive innovation borrowed from their Silicon Valley brethren is the only candidate for providing solution to turn public services around the way Wikipedia did with encyclopedia writing, defending the level of service while driving costs way down.

It does not take a genius to figure out where this is going. It leads to public services that are redesigned from the ground up, and that will look nothing like what we are used to. School? YouTube videos (Khan Academy style) instead of teachers in classrooms. Health care? Online fora instead of queing up at your local doctor for most less serious conditions. University? A badge system for informal learning on the open web instead of degrees (the Mozilla Foundation is working on it already). Policy design? Wikicracies instead of professional weberian bureaucracies. It’s safe to predict that the transition to such a scenario will be problematic, and it will imply very many people who are working in the public sector becoming — to put it bluntly — completely useless, because we can’t use what they can do and they can’t do what we need done.

The fund that the European Commission is designing can address at best half the problem; enabling social innovators to rethink radically public services. The other half is to make sure that the social contract holds, and that scared, enraged Europeans do not take to the street to set fire to cars, ATMs or their slightly different-looking neighbours. For this we need a high level political leadership: the present system was conceived by giants like Bismarck (the pension system) and Lord Beveridge (modern welfare). Let’s hope we find comparably enlightened leaders for the current phase.

La scuola è finita

In North Carolina un bambino su venti non va mai a scuola: viene istruito a casa. Gli americani lo chiamano “home schooling”. Secondo lo studioso Brian Ray, i bambini in questa situazione negli USA sono passati da circa 12.000 a oltre due milioni in 25 anni. La cosa è diventata socialmente molto più accettabile.

Non credo sia un caso. La scuola serve a fare tre cose: istruire i bambini; socializzarli alla vita in comune; parcheggiarli intanto che mamma e papà vanno al lavoro. Questi tre ruoli sono molto importanti, ma non mi è affatto chiaro che debbano essere svolti dalla stessa istituzione. In particolare da questa istituzione.

Dal lato istruzione, la scuola è progettata per preparare i giovani a prendere posto in un’economia che non c’è più, quella industriale e tayloristica novecentesca. Come dice sir Ken Robinson nel video qui sopra, è organizzata come una fabbrica o una caserma, con campanelle che segnano gli orari, dipartimenti separati (scienze vs. discipline umanistiche), e produce “lotti” di diplomati nel modo più standardizzato possibile. La didattica è figlia dell’organizzazione e non, come dovrebbe essere, viceversa: i nostri figli fanno l’ora di matematica, per esempio, perché l’insegnante entra in classe, saluta, appende il cappotto, apre il registro etc., e così se ne vanno cinque-dieci minuti. Ma l’unità naturale per l’apprendimento della matematica è il teorema, o la derivazione della formula, non l’ora. E in effetti, le (bellissime!) lezioni della Khan Academy – uno dei progetti “world changing” finanziati da Google – durano dai sei ai quindici minuti, con qualche eccezione, e si prendono tutto il tempo di spiegare bene le cose, passaggio per passaggio. Ma c’è di peggio: la scuola ti insegna che la risposta giusta a qualunque problema è solo una: sta alla fine del libro, nelle soluzioni agli esercizi – il che è evidentemente falso. E che non si deve copiare, perché questo vuol dire barare. Ah sì? Lavorare insieme su un problema, fuori dalla scuola, si chiama collaborazione: è il motore della nostra economia, della scienza, di tutto.

Mi pare chiaro che la scuola non svolge molto bene il compito di preparare i giovani alla loro vita professionale. Internet è un candidato più credibile: perché dovrei sciropparmi un insegnante mediocre e demotivato in un istituto di provincia quando ho la Khan Academy e i TED Talks? Tutti possiamo avere i migliori insegnanti del mondo. Possiamo interagire con una classe grande quanto il pianeta, in cui non importa quanti anni abbiamo e ciascuno fa progressi al proprio passo naturale, esplorando infinite combinazioni tra teoria e pratica. E non mi si dica che i bambini non imparano se non li costringi. I bambini sono naturalmente curiosi e desiderosi di imparare, dicono tutti i pedagoghi e gli psicologi cognitivi. La scuola riesce spesso a uccidere questo istinto, e già basterebbe questo per indurci a metterla seriamente in discussione.

Quanto al socializzare i bambini, la scuola fa un ottimo lavoro: insegna loro a non alzare la voce, arrivare in orario e così via. Di nuovo, però, la società a cui li si prepara è una società ottocentesca e gerarchica: i suoi valori sono l’obbedienza, la prevedibilità, la conformità allo standard. Per alcuni funziona bene, ma altri imparano l’ipocrisia, la codardia, il conformismo e l’opportunismo che poi, negli adulti, genera il meraviglioso mondo di Dilbert. Non sono un esperto, ma scommetterei che un veicolo migliore per la socializzazione è il rugby, ovviamente quello giocato. Ti insegna il duro lavoro, il senso di squadra, l’idea che tutti sono diversi e contribuiscono in modo diverso al successo comune, la passione per quello che fai, la correttezza. Con il terzo tempo, ti insegna la differenza tra avversari e nemici. E in più fa anche bene alla salute.

Al di là di istruzione e socializzazione, per la scuola resta ancora un ruolo fondamentale: il parcheggio per i figli. Di parcheggi c’è molto bisogno; probabilmente è questo il ruolo che rende alla maggior parte dei genitori un mondo senza scuola semplicemente inimmaginabile, e quindi ci rende più difficile riformare l’istruzione. Se questo è il core business, però, temo però che il futuro della scuola sia buio. Man mano che i genitori benestanti si renderanno conto che la scuola di oggi riduce le possibilità dei loro rampolli di avere successo nella vita, la diserteranno (come, appunto, succede negli USA); e siccome non usufruiranno del servizio, saranno molto restii a pagare le tasse per un servizio pubblico che non usano. Ci sarà una pressione sempre più forte a favore di soluzioni educative personalizzate e erogate dal settore privato, e le scuole pubbliche saranno sempre più trincerate nel ruolo di parcheggi per i figli dei poveri, sempre peggio finanziate, ridotte a toppa del sistema educativo. Non che io auspichi una soluzione del genere: se chiedete a me, io proporrei una riforma radicale dell’istruzione pensata per la società connessa. Ma quello che voi e io pensiamo non conta molto: come diceva John Brockman al Festival della scienza, le cose davvero importanti (la civiltà dell’automobile, la globalizzazione, il riscaldamento globale) non sono oggetto di scelta collettiva. Sono emergenti, e tutto quello che possiamo fare è adattarci per quanto siamo capaci.

Hat tip: Andrew Missingham

UPDATE – Bella coincidenza. I partecipanti alla sessione su “Il futuro dell’istruzione” a Mozilla Drumbeat 2010 (finito sabato) hanno prodotto questo video, in cui si dicono cose simili a quelle del mio post. Non perdetevi l’intervento secco di Massimo Banzi. (Hat tip: Nadia El-Imam)