Nonostante i loro successi, le politiche wiki restano, per ora, un fenomeno minoritario. L’esperienza più significativa in termini di partecipazione è probabilmente, a fine 2009, il già citato sito di petizioni del n. 10 di Downing Street nel Regno Unito (circa 5 milioni di utenti, il 10% della popolazione circa), che però è anche una delle meno sofisticate: la “collaborazione di massa” si riduce all’adesione a petizioni. Perché accade questo? È solo questione di novità degli strumenti, e possiamo aspettarci che essi si diffondano, o c’è qualcosa di più profondo?
Nei paesi democratici si tende a concordare sul fatto che le scelte importanti vadano fatte con la partecipazione di quante più persone possibile, e comunque di una solida maggioranza della popolazione. Se non coinvolgono che piccole minoranze, è giusto chiedersi se le politiche wiki abbiano la legittimità democratica necessaria per essere strumenti di decisione collettiva. Tanto più bassi sono gli ostacoli che si frappongono tra il cittadino e la partecipazione, quanto più legittimo sarà lo strumento. Siccome stiamo parlando di partecipazione mediata da internet, un altro modo di dire la stessa cosa è che la legittimazione democratica delle politiche wiki è tanto maggiore quanto più piccola è la fetta di popolazione che non riesce a superare il cosiddetto digital divide.
Divisi nell’accesso
Il digital divide ha un aspetto tecnologico e uno cognitivo. Quello tecnologico è il più conosciuto — la maggior parte delle volte che i media citano il digital divide si riferiscono al solo aspetto tecnologico — e riguarda la possibilità di accesso alla connettività. Se nel luogo dove vivi non è possibile acquistare un servizio di connessione dal tuo computer al più vicino punto di accesso alla rete, allora hai un problema di digital divide tecnologico. Oggi si ritiene che la connettività 56K, che viaggia sulla rete telefonica sotto forma di segnali audio ed era prevalente negli anni Novanta, non sia sufficiente ad assicurare l’inclusione digitale — anche perché il web delle origini fatto prevalentemente di testo è divenuto sempre più ricco di foto, video, musica ecc., che consumano molta più banda. Lo standard di connettività di riferimento è diventato l’ADSL, un sistema appoggiato anch’esso alla rete telefonica. Per trasportare dati in modalità ADSL, la rete telefonica deve però subire interventi di adeguamento alle centraline; laddove questi interventi non sono stati fatti la connettività ADSL è assente.
Quanto è grave il digital divide tecnologico? Dipende da come lo misuriamo. Il rapporto banda larga commissionato dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni nel 2008 spiega che il 94% della popolazione italiana è coperto dal servizio di connettività a banda larga, con il restante 6% costituito prevalentemente da piccoli comuni di montagna e nelle isole minori. Questo però non vuol dire che oltre nove famiglie italiane su dieci abbiano una linea ADSL in casa: vuol dire che il 94% delle famiglie potrebbe, volendo (e pagando) connettersi a una rete telefonica in doppino di rame. Questa, se Telecom sostituisce le centraline, può sostenere la connettività ADSL.
Sono molte di meno le famiglie che davvero si dotano di una connessione di banda larga. Secondo i dati della Commissione europea le linee installate sono poco meno di 20 ogni 100 abitanti (la media europea è un po’ più alta, 24 ogni 100 abitanti)1. Secondo Eurostat, il 39% delle famiglie italiane vive in una casa collegabile a centraline che già supportano la banda larga (la media europea è molto più alta, 56%)2.
Questi dati ci dicono che il digital divide tecnologico è un problema molto serio, e molto lontano dall’essere risolto; esso mette seriamente in discussione la legittimità delle politiche wiki. Occorre garantire a tutti, senza eccezione, l’accesso alla connettività di banda larga, che è sempre più percepito come un diritto fondamentale. Le prime decisioni governative in questo senso cominciano a farsi strada3.
Divisi nella facilità d’uso
La connettività di banda larga è indispensabile per una partecipazione piena alle politiche wiki; ma è sempre più evidente che da sola non basta. Molti utenti della rete, soprattutto anziani, la usano solo o soprattutto per cercarvi informazioni: sanno usare la funzione di ricerca di base con Google, leggono i quotidiani online e così via. Il quadro tracciato da Eurostat sui modi di usare la rete degli europei è sconsolante.
% popolazione che usa internet per svolgere diverse attività, 2009 (elaborazioni su dati Eurostat4)
Italia | Europa27 | |
invia/riceve e-mail | 39 | 57 |
si informa su beni/servizi | 27 | 39 |
legge giornali/riviste | 23 | 31 |
si informa sulla salute |
21 | 33 |
interagisce con le autorità pubbliche | 17 | 29 |
internet banking | 16 | 32 |
musica e film | 15 | 28 |
web radio/tv | 13 | 24 |
acquista online | 12 | 37 |
cerca lavoro | 9 | 15 |
crea e condivide contenuti sul web (2008) |
7 | 11 |
scarica e aggiorna giochi |
4 | 9 |
partecipa a corsi | 3 | 5 |
acquista contenuti a pagamento (2008) | 0 | 5 |
Gli utenti esperti del web 2.0 potrebbero obiettare che imparare a usarne gli strumenti (forum, blog, social network e così via) è estremamente facile, e che quindi è molto semplice, per una persona che usa la posta elettronica e dispone di una connessione di banda larga, partecipare alle politiche wiki. Io penso invece che non sia così. Questi dati dicono che una larga fascia di cittadini europei è profondamente diffidente nei confronti della rete. Queste persone si informano, ma non comprano; leggono, ma non creano contenuti da condividere. Molti di loro, purtroppo incoraggiati dall’atteggiamento sensazionalistico di una larga fetta dei media tradizionali, si sentono schiacciati dalla mole di informazioni, incapaci di relazioni online e temono di restare vittime di truffatori, pedofili o cybercriminali. Esse sono vittima di un digital divide cognitivo, e rimangono confinate in un uso passivo della rete. Passività e diffidenza sono incompatibili con le politiche wiki, che richiedono ai cittadini sforzi di comprensione e fiducia reciproca per parlarsi al di sopra delle inevitabili differenze.
Il digital divide cognitivo è molto più difficile da definire e quantificare di quello tecnologico. Non solo dipende dalla diffusione di abilità diverse tra loro, come quelle della tabella alla pagina precedente — alcune delle quali molto più rare di altre; ma anche perché si sposta in continuazione con l’evoluzione della tecnologia e dell’uso che ne fanno le fasce più avanzate della popolazione, i cosiddetti early adopters. Per rimanere al passo, i cittadini devono continuamente apprendere nuovi strumenti: la BBS negli anni Ottanta, la mailing list e il forum nei primi Novanta, il blog a fine Novanta, i social network nei primi Duemila. La vita in rete ci chiede di apprendere continuamente cose nuove, e non tutti sono disposti a farlo. Come sempre, ad essere favoriti sono i lavoratori della conoscenza: ricercatori, professionisti, imprenditori.
C’è poi un aspetto delle politiche wiki che non è affatto digitale e di cui si parla poco ma che, a mio parere, è il più escludente di tutti, ed è che esse usano prevalentemente comunicazione scritta. L’uso di massa della parola scritta è una novità storica: prima di internet, la stragrande maggioranza delle persone semplicemente non scriveva mai nulla dopo avere finito la scuola. Anche oggi, e anche tra gli intellettuali, la disabitudine a scrivere è nettamente prevalente. Solo poche persone sanno esprimere un’argomentazione logica con chiarezza e in modo convincente. Chi sente la comunicazione scritta come difficile e faticosa tenderà naturalmente a sfuggirla, e quindi rifiuterà di impegnarsi nelle politiche wiki.
Non credo che questo problema sia risolvibile riprogettandone gli strumenti. Il software su cui girano le politiche wiki, naturalmente, può e deve essere migliorato in molti modi — tra i primi quello dell’accessibilità per le persone diversamente abili — ma queste migliorie contribuiranno in modo molto marginale al superamento del digital divide cognitivo. Noi umani semplicemente troviamo più naturale la risposta emotiva dell’argomentazione razionale, e questo vale sia in rete che fuori. Parlare di politica al bar o in piazza è una cosa: si discute, si grida, si gesticola, ci si guarda in faccia. Affrontare lo stesso argomento su un forum, leggendo e scrivendo post, è ben diverso. I neuroscienziati e gli psicologi sperimentali lo sanno bene5. Ne deriva che la partecipazione a quella che il filosofo tedesco Juergen Habermas chiama sfera pubblica, ovvero la discussione su scelte collettive condotta mediante argomentazione razionale, richiede uno sforzo consapevole. L’ostacolo finale alla partecipazione alle politiche wiki è lo stesso che incontriamo sulla strada della partecipazione democratica in senso alto: essa richiede le nostre migliori energie, e purtroppo sono limitate.
Un mondo a parte
In questa sezione provo a gettare uno sguardo al di là del digital divide, nel mondo di chi ha superato tutte le barriere e può dirsi a tutti gli effetti incluso. Il lettore e la lettrice sono avvertiti: le prossime pagine sono basate sulla mia esperienza in rete, le mie letture e poco altro. Non ho la verità: non ho nemmeno dati solidi e verificabili. Ancora più del resto del libro, questa parte è quindi da prendere come un contributo, del tutto soggettivo, a un dibattito che è appena agli inizi.
Gli utenti avanzati della rete sono molto consapevoli di appartenere ad una élite cognitiva. Questa consapevolezza alimenta in loro (anzi in noi, visto che ne faccio parte anch’io) un certo orgoglio: ehi, noi capiamo Internet! Noi siamo l’avanguardia della rivoluzione digitale! Stiamo facendo la storia! Siamo sempre connessi, sempre rintracciabili, abbiamo l’impressione di conoscerci anche se non ci siamo mai incontrati (e anche se non abbiamo mai interagito direttamente) perché viviamo nelle scie digitali gli uni degli altri: i blog e i social network amplificano molto la percezione che abbiamo dei cosiddetti “amici di amici” (persone connesse a qualcuno che è connesso con noi).
Gli psicologi sanno da tempo che il cervello umano riesce a gestire bene un numero massimo di relazioni umane che si aggira intorno a 150, il cosiddetto numero di Dunbar. La vita in rete porta ogni giorno all’attenzione di chi fa parte dell’élite cognitiva ben più di 150 persone. Io personalmente tento di mantenere basso il numero dei miei contatti sui social network, e non accetto amicizie di persone con cui non ho mai avuto alcun rapporto: nonostante questo, i miei contatti su Facebook hanno superato i 500 all’inizio del 2010, e continuano a crescere. Facebook è progettato in modo che, se i miei contatti interagiscono con i loro (per esempio commentandone un post), queste attività sono rese visibili per me. In questo modo, i creatori del social network cercano di mettere in contatto tra loro gli “amici di amici”. Se i miei 500 contatti dovessero avere anche solo 100 contatti per ciascuno, io sarei esposto a interazioni sociali con 50.000 persone, oltre trenta volte il numero di Dunbar.
In questa situazione, è fin troppo facile cadere nell’illusione che tutti quanti condividano i nostri interessi, le nostre strutture di pensiero, i nostri stili di vita. O, il che è lo stesso, che non ci sia, là fuori, nessun altro. Tutti i miei amici hanno un blog, tutti i miei amici acquistano su eBay, tutti i miei amici conoscono vita morte e miracoli della nuova applicazione per iPhone: ergo, tutto il mondo è così. Questo è ovviamente falso.
La forte visibilità di conoscenti casuali e “amici di amici” produce un altro effetto curioso, che ha a che fare con l’informazione. Nell’informazione tradizionale le notizie sono selezionate a monte dai giornalisti ed editori. Tutti i lettori (o i telespettatori) sono esposti a un’identica selezione: percepiscono il mondo in modo coerente gli uni rispetto agli altri, semplicemente perché leggono lo stesso giornale o guardano gli stessi programmi. Questa situazione è originata da limiti tecnologici: le pagine del giornale e le ore del palinsesto non sono infinite. Qualcuno deve filtrare il flusso degli eventi e decidere cosa è degno di attenzione e cosa non lo è.
Le pagine web, invece, sono di fatto infinite, e qualunque cosa venga ritenuta importante anche da una sola persona viene pubblicata in rete — dalla riforma sanitaria dell’amministrazione Obama all’ennesimo gatto che suona camminando sulla tastiera di un pianoforte. L’élite cognitiva connessa filtra le notizie in molti modi, ma uno dei più importanti è che ciascuno legge quelle che gli altri segnalano e commentano. Questi altri, naturalmente, sono solo gli altri appartenenti all’élite cognitiva. Vi sono molti siti di informazione i cui utenti possono segnalare notizie degne di nota; Digg e Newsvine sono tra i più famosi. Naturalmente non c’è alcuna garanzia che le notizie selezionate in questo modo siano le stesse che sembrano importanti al direttore di un giornale, e infatti in genere non è così. L’élite cognitiva e i consumatori di mass media vivono in mondi diversi, e a volte sembrano non condividere un vero senso comune.
Ecco un esempio. Il 22 dicembre 2006 si verifica a Opera, un comune della cintura milanese, un episodio molto sgradevole: un gruppo di cittadini incendia un campo provvisorio di Rom che si trova nel territorio comunale. I quotidiani del tempo deplorano, ma danno ampio spazio al disagio provocato dalla pressione sul territorio di un’ondata migratoria di popolazioni Rom dall’Europa orientale6. I commentatori si dividono tra quelli che considerano l’immigrazione un male necessario per garantire i diritti umani dei migranti e quelli che la considerano un male e basta, da combattere e sradicare. Il “day after” del raid di Opera — e quindi la massima visibilità del tema sui media tradizionali italiani — coincide con il giorno in cui i lettori di Newsvine scelgono come storia di copertina uno studio in cui si dice che tre quarti delle startup tecnologiche americane vengono fondate da immigrati, prevalentemente asiatici ed europei dell’est; dunque, il governo dovrebbe darsi una politica più attiva per aumentare l’immigrazione. Naturalmente questo è soltanto un esempio, e non ho dati statistici solidi, ma lascia l’impressione che i cittadini del web 2.0 e quelli dei media tradizionali vivano in due mondi diversi, e che non stiano riavvicinandosi.
Intolleranza cognitiva
Naturalmente — ho cercato di argomentarlo nelle pagine precedenti — non è vero che il mondo sia su Facebook; non è nemmeno su internet. Ma l’élite cognitiva — pur sapendolo — tende a comportarsi come se lo fosse, e quando la realtà interferisce con questa illusione reagisce con fastidio. Lo si vede molto bene quando gli stati approvano leggi che riguardano proprio aspetti della vita in rete, dal file sharing alla condivisione di reti wireless: i blog e i social network si riempiono di critiche, il che è comprensibile (in fondo ci sentiamo esperti di questo argomento) e perfino auspicabile (alimenta il dibattito democratico). Quello che mi colpisce di più, però, sono i toni intolleranti e quasi violenti di molte di queste critiche, che quasi immediatamente si concentrano non già sulle leggi in questione, ma sulla classe dirigente che le ha fatte. Non è insolito trovare in rete espressioni di stupore e di scandalo. Come possono i nostri governanti — si chiede questa élite — essere così ignoranti di argomenti tanto importanti? Perché non studiano i problemi prima di occuparsene? Meglio ancora, perché non lasciano che se ne occupi chi li capisce davvero, cioè noi?
Tutte queste domande hanno risposte in fondo ovvie. Fare errori non significa necessariamente essere stupidi; è possibile studiare un problema (soprattutto se lo si fa in modo un po’ superficiale e frettoloso) senza trarne le nostre stesse conclusioni; e le autorità pubbliche si occupano anche di internet perché hanno un mandato democratico a occuparsi della cosa pubblica nel suo insieme, e non possono trasferirlo ad altri, sebbene in teoria più competenti. Ma per l’élite cognitiva, abituata a frequentare quasi solo se stessa, una posizione così diversa da quella su cui quasi tutti i suoi membri sono concordi, espressa da un pulpito autorevole (per esempio la dichiarazione di un ministro) è inconcepibile. La sensazione che si prova è quella di scivolare in un oscurantismo da cui credevamo di essere usciti per sempre: un po’ come dover tornare a discutere di conquiste date per assodate, come il fatto che la terra è rotonda e che separare Stato e Chiesa è una buona idea. Questa sensazione è estremamente sgradevole, perché ci trasforma da avanguardia della storia a frangia marginale di entusiasti della rete. E ad essa l’élite reagisce con molta veemenza.
Un esempio di questo atteggiamento è quello dell’imprenditore hi-tech e blogger Gianluca Dettori. Come la maggior parte dei suoi colleghi europei, Dettori insegue la posizione di leadership nei settori hi-tech delle aziende della Silicon Valley, e si rende conto che gli imprenditori italiani pagano carissimo il ritardo culturale del sistema Italia nell’alta tecnologia. Ogni volta che la legislazione mostra di non considerare il recupero di questo ritardo come una priorità assoluta, rimane molto deluso: capisce che la classe dirigente italiana non vive nel suo stesso mondo. Ed esso, ai suoi occhi, è l’unico mondo vero. Scrive Dettori:
Mi sa che abbiamo un grosso problema sui temi della società digitale, no? Gli interlocutori rientrano in 3 categorie:
- anziani
- incompetenti
- contrari
Esiste al Governo o in Parlamento qualcuno che non rientra in queste tre categorie? Se ne conoscete per cortesia indicatemeli…7
La classe dirigente, d’altra parte, sembra reagire con pari intolleranza di fronte alle critiche dirette che le vengono mosse sui blog e i social network. Il simbolo di questa reazione è probabilmente un episodio che si è svolto nell’aprile 2009 e che ha visto protagonisti l’onorevole Gabriella Carlucci, vicepresidente della Commissione bicamerale per l’infanzia, e il blogger e giornalista Alessandro Gilioli. Vale la pena ricostruirlo per intero — per quanto la ricostruzione sia dolorosa e imbarazzante — perché potrebbe essere questo il futuro dei rapporti tra politica e rete in Italia.
- A febbraio l’onorevole Carlucci presenta alla Camera un disegno di legge di cui è firmataria. È intitolato “Internet territorio della libertà, dei diritti e dei doveri”; vieta l’immissione in rete di contenuti in forma anonima, e prevede sanzioni severe per i trasgressori. L’obiettivo del provvedimento sarebbe la protezione dei minori dagli adescamenti pedofili, e la lotta alla circolazione di materiale pedopornografico in rete.
- A inizio marzo Carlucci pubblica sul proprio sito il testo integrale8.
- Il giorno successivo alla pubblicazione, il blogger Guido Scorza scarica il file con la proposta di legge: è un file Word, e quindi conserva traccia di chi lo ha creato e dell’intestatario della licenza del software associata a quel particolare computer. Il creatore del file risulta essere Davide Rossi, da un computer su cui girava una versione di Word acquistata da Univideo. Univideo è l’associazione di categoria degli editori dell’audiovisivo; Davide Rossi è il suo presidente. Gli editori dell’audiovisivo non hanno interessi statutari sulla pedopornografia; hanno invece fatto una bandiera della lotta alla condivisione di file video in rete, che secondo loro lede i diritti editoriali degli associati. Scorza, come la stragrande maggioranza dei bloggers, conclude che la proposta Carlucci non mira davvero ai pedofili, ma ai ragazzi che immettono film e musica in rete9: che è a sua volta un reato, ma molto meno grave della violenza sessuale ai danni di minori.
Ne segue una polemica dai toni molto accesi, in cui il disprezzo per la goffaggine con cui Rossi ha lasciato la propria “firma” ha una parte non piccola. Un blogger tra i più letti, Massimo Mantellini, intitola un suo post “Almeno evitate i file .doc”. I commenti sono di questo tenore: “no ditemi che non e’ vero…e’ fantastico….. 🙂 solo loro, parenti e amici, paraculati su paraculati, possono arrivare a fare simili cose…”, “Ah, che bello vedere trionfare il merito e la competenza, in Italia. Accidenti però, non pensavo che i passacarte guadagnassero così tanto e andassero chiamati “onorevole”…”; “E gli onorevoli, tutti ed indistinti, subito pronti a difendere la lobby.”. E così via10. Un altro blogger influente, Stefano Quintarelli, stava provando ad animare un dibattito civile sul merito della proposta Carlucci, ma quando la notizia del file firmato Rossi lo raggiunge Quintarelli decide di chiudere i commenti.11
In questo clima, il 23 aprile Carlucci partecipa a un dibattito su “Internet, diritto d’autore e libertà di informazione in rete”, organizzato da Altroconsumo presso la Camera dei deputati. Gilioli vi è coinvolto come moderatore. La discussione si surriscalda (alcuni testimoni avranno a scrivere che Gilioli tiene un atteggiamento un po’ provocatorio per un moderatore12), e finisce con il seguente scambio:
Gilioli: “Internet è come la strada da casa sua a casa mia, non è mettendo un poliziotto a ogni angolo che si salvano i bambini.”
Carlucci: “Guardi, le auguro che appena suo figlio avrà accesso a Facebook venga intercettato dai pedofili, e che lo incontrino sotto la scuola. Glie lo auguro, perché così lo capirà su sé stesso.”
Gilioli: “Grazie, grazie. Vedo che lei è piena di umanità.”
Il tutto viene videoregistrato e caricato su YouTube, e fa rapidamente il giro della blogosfera italiana. A questo punto l’intera rete insorge: Gilioli scrive sul suo blog che “la Carlucci non sta affatto bene” e aggiunge:
Lo so che bisogna ridurre i costi della politica, ma una distribuzione mirata di benzodiazepine alla Camera sarebbe molto opportuna. Io non ho capito com’è che la mandano in giro. No davvero, non è questione di destra o di sinistra, è questione di Tso.13
Non è davvero un buon segno per il futuro delle politiche wiki che l’élite cognitiva, attualmente l’unico gruppo in grado di usarne con disinvoltura gli strumenti, sia così autoreferenziale e facile all’escalation.
Investire sull’inclusione
Nel corso di questo capitolo ho sostenuto che le politiche wiki sono un fenomeno fortemente minoritario. Sono molti — quasi certamente la maggioranza — i cittadini che non possono prendervi parte in modo efficace e soddisfacente perché non hanno accesso a connettività di banda larga; oppure perché non possono o non vogliono imparare ad usarne gli strumenti, che sono quelli del web 2.0 (peraltro in continuo aggiornamento); oppure perché non hanno facilità di scrittura. Poiché in democrazia si pensa che la partecipazione alle scelte collettive debba essere la più ampia possibile, ogni ostacolo che si frappone tra i cittadini e le politiche wiki mina la credibilità delle seconde.
In questo momento storico, l’unico gruppo che è in grado di partecipare pienamente alle politiche wiki senza dovere affrontare barriere è un’élite cognitiva che fa un uso molto intenso di internet, a cui è praticamente sempre connessa. Questo gruppo ha competenze molto importanti, ma tende a vedere il mondo in modo molto diverso dai cittadini meno connessi, e perfino a considerare questi ultimi con una certa sufficienza. Mi sono quindi chiesto come possiamo essere sicuri che le politiche wiki tengano conto dell’interesse di tutti se vengono affidate solo alla minoranza connessa. Cos’è wiki, in definitiva: una credibile finestra sul mondo o il luogo di incontro di un clan ristretto di fanatici autoreferenziali?
Scopro le mie carte: nonostante i dubbi, io rimango un sostenitore dell’azione di governo generata dagli utenti. I motivi sono quattro:
- le politiche wiki non sono un sostituto del normale processo democratico; ne sono, invece, un’integrazione. Le decisioni ultime continuano ad essere prese secondo le regole che le democrazie si sono date, e che nessuno sta neppure pensando di modificare. Anche se le politiche wiki dovessero diventare una modalità accettata dell’azione di governo, il cittadino non connesso continuerebbe a disporre dei canali tradizionali di partecipazione, a partire dal diritto di voto.
- le politiche wiki, per ora, hanno dato le migliori prove di sé nella mobilitazione di micro-élites di persone fortemente specializzate, le cui competenze vengono incanalate per una migliore progettazione dell’azione di governo. In questa situazione, il processo rimane democratico, anche se poche persone vi partecipano.
- i governi democratici — sia detto a loro merito — stanno facendo un vero sforzo per combattere il digital divide. Per ora questo sforzo è concentrato prevalentemente sull’aspetto che abbiamo chiamato tecnologico, cioè sulla fornitura di connettività di banda larga a una fascia della popolazione la più ampia possibile; ma mi pare che si possa dire con ragionevole tranquillità che il problema dell’accesso in senso lato è un problema sentito. Mi aspetto, quindi, che almeno il digital divide tecnologico sia in via di riduzione.
- e comunque la democrazia, come si potrebbe dire parafrasando Mao Zedong, non è un pranzo di gala. La cittadinanza piena in democrazia richiede applicazione, pensiero, senso di responsabilità per la cosa pubblica. In due parole, richiede tempo e fatica, e lo richiede ai cittadini comuni, titolari della sovranità. In passato questo ha richiesto l’alfabetizzazione di massa; oggi richiede l’onnipresenza della connettività di banda larga. Certo, può risultare faticoso e scomodo, ma il cittadino passivo è un lusso che le democrazie non si possono permettere, pena lo slittamento in sistemi autoritari, in cui il potere è concentrato nelle mani di pochi. La democrazia costa fatica e, negli anni Duemila, costa bytes e clic. Meglio rassegnarsi a uno sforzo educativo per portare il maggior numero possibile di cittadini a usare i nuovi strumenti di partecipazione.
La mia adesione alle politiche wiki, comunque, non è incondizionata. Credo fortemente che ogni azione di governo di questo tipo debba investire sull’inclusione, cioè incorporare uno sforzo per massimizzarne l’accessibilità. Nel mio piccolo cerco di comportarmi in modo coerente con queste mie convinzioni: in Kublai, per esempio, il gruppo che dirigo fornisce assistenza all’uso dei diversi strumenti — in particolare Second Life, che è assai meno intuitiva del web — e alla scrittura di documenti di progetto credibili.
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Note
2 http://epp.eurostat.ec.europa.eu/tgm/table.do?tab=table&init=1&language=en&pcode=tin00089&plugin=1 (dati 2009). È poi chiaro che, al di là della possibilità tecnologica di connettersi, l’accesso effettivo dei cittadini alla banda larga dipende dai prezzi e dalla qualità del servizio. Le autorità di regolazione dei mercati delle comunicazioni nei vari paesi cercano di incoraggiare la concorrenza tra operatori per fare diminuire i primi e aumentare la seconda.
3 Mentre scrivevo questo libro il governo finlandese ha varato un provvedimento con cui si impegna a garantire a tutti i propri cittadini una connessione di almeno 1 Megabit per secondo. Entro il 2015 l’ampiezza della banda di diritto verrà portata a 100 Megabit per secondo. http://www.corriere.it/scienze_e_tecnologie/09_ottobre_15/finlandia-banda-larga-diritto_424d1fd4-b97e-11de-880c-00144f02aabc.shtml.
4 http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/information_society/data/main_tables
5 Daniel Kahneman, per esempio, parla esplicitamente di due sistemi cognitivi, uno razionale e uno emotivo, nella lezione pronunciata in occasione del conferimento del premio Nobel, nel 2002. http://nobelprize.org/nobel_prizes/economics/laureates/2002/kahnemann-lecture.pdf
6 Secondo Repubblica, i cittadini parlano di “Solide ragioni di sicurezza, anche dei propri investimenti immobiliari”. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2006/12/27/la-paura-le-ragioni-del-dialogo.html
7 http://gianlucadettori.nova100.ilsole24ore.com/2009/03/il-governo-in-materia-di-internet.html febbraio 2010
8 Il testo integrale si può leggere qui: http://blog.webnews.it/06/03/2009/ecco-il-disegno-di-legge-firmato-da-gabriella-carlucci/ (febbraio 2010)
9 http://www.guidoscorza.it/?p=623 febbraio 2010
10 http://www.mantellini.it/?p=6474 febbraio 2010
11 http://blog.quintarelli.it/blog/2009/02/disegno-di-legge-carlucci-per-la-tutela-della-legalit%C3%A0-nella-rete-internet.html febbraio 2010
12 http://www.amointernet.it/blog/note-sul-convegno-di-altroconsumo-su-internet-diritto-dautore-e-liberta-di-informazione.html febbraio 2010
13 http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2009/04/23/aiutate-lonorevole-carlucci/ Una semplice ricerca su Google restituisce migliaia di risultati, in grande maggioranza dai toni molto accesi e perfino volgari.
Capitolo importante, interessante e ricco di spunti. Sull’intolleranza cognitiva, pero’. l’argomento non e’ molto convincente ne’ intuitivo. Parli di un episodio di successo, in cui la rete a sbugiardato un deputato ipocrita, illustrando oltretutto il suo tono aggressivo, per poi dimostrare che sono i blogger gli intolleranti. Non e’ molto lineare – dai piu’ evidenza alla Carlucci che hai blogger per poi dire il contrario. Si mettono insieme snobismo delle elite ed aggressivita’ legata al fatto che il dibattito e’ pubblico. Il fatto davvero importante, in quell’episodio, e’ che un deputato e’ stato sorpreso a farsi scrivere le leggi dall’industria, ma soprattutto che a fronte di cio’ non e’ successo nessuno scandalo, nessuno ne ha parlato al di fuori della blogosfera.
David, interessante ciò che dici! Io l’episodio lo vivo in tutt’altro modo: con in mano un fortissimo argomento polemico (lo scivolone Carlucci-Rossi) l’élite cognitiva ne propone una gestione livorosa e rissosa, finendo per indebolire i suoi stessi argomenti. Ci sento un’atteggiamento simile a quello dei black bloc che, per contestare il Washington Consensus, prendono a mattonate gli sportelli Bancomat: la motivazione è giusta, ma la reazione non è solo inutile, ma dannosa, e produce un ulteriore irrigidimento delle posizioni.
In questo periodo sto leggendo un libro: Eretici Digitali che mi ha convinto a comprarlo quando, prendendolo in mano dallo scaffale, l’ho aperto ed ho letto la prima frase del primo capitolo: :”La rete ha prodotto una societa’ divisa, con una parte che la vive e l’altra che la detesta” … ed e’ vero !
Personalmente mi sento, forse indegnamente, parte di quella elite a cui fai riferimento, ma al contrario di molti miei colleghi blogger ho passato molta parte del mio tempo libero a provare ad entrare in comunicazione anche faccia a faccia con quella parte della societa’ che la rete la detesta, ma che in tante, tantissime occasioni avrebbe cose interessanti da condividere e non lo fa … provo un senso di avvilimento nel vedere questo accadere ogni giorno !
Credo anche io che il digital divide non sia solo una questione di banda, anzi tutt’altro.
Ovviamente la connettivita’ deve esserci questo e’ ovvio, ma non basta. E’ un po come avere una liberta umanamente quasi sconfinata di fronte a se e non sapere cosa farsene …
Riguardo al paragrafo: Investire sull’inclusione
Il punto 1 mi trova stra-daccordo
Il punto 2 anche
Sul punto 3 ho qualche riserva in piu’
Il 4 e’ quello in cui vedo le maggiori difficolta’. Quando le cose dipendono da noi le pensiamo, le diciamo e le facciamo … ma quando si “passa la palla” e si attendono feedback … e dura, soprattutto, come sai meglio di me, nella nostra Italia 🙁
Capitolo molto bello, piu di altri e che dire di questo paragrafo??
“La cittadinanza piena in democrazia richiede applicazione, pensiero, senso di responsabilità per la cosa pubblica. In due parole, richiede tempo e fatica, e lo richiede ai cittadini comuni, titolari della sovranità. In passato questo ha richiesto l’alfabetizzazione di massa; oggi richiede l’onnipresenza della connettività di banda larga. Certo, può risultare faticoso e scomodo, ma il cittadino passivo è un lusso che le democrazie non si possono permettere, pena lo slittamento in sistemi autoritari, in cui il potere è concentrato nelle mani di pochi.”
Semplicemente bravissimo…..aggiungo solo una speranza….speriamo di essere ancora in tempo…
Enrico e Rosaria, il punto 4 è un punto controverso. Ne parlerò presto in un post.
elite cognitiva….ti spingi in giudizi e valutazioni molto forti, di cui va da sé ti assumi onori ed oneri…io sarei molto più cauto, ma tant’è. Questione di stile
Magari ti può esser utile:
http://www.federicobo.eu/2009/02/28/il-numero-di-dunbar-sopravvive-nei-social-network/
Nella nota 5 citi come neuro scienziati o psicologi sperimentali un nobel dell’economia; lungi da me una difesa della categoria (cui peraltro io non posso dire di appartenere), però hai già detto due volte nel testo che non ti sarebbe servita l’economia per parlare di quello di cui avresti poi parlato e invece spesso citi economisti (in questo caso, cambiando loro etichetta).
Metterei in nota l’incipit del paragrafo “Un mondo a parte”
Sono contrario all’aggettivazione di “consapevole”; o si è consapevoli o non lo si è (molto o poco consapevoli stona).
Aggiorna l’esempio del gatto (adesso, girano in rete video dell’ennesimo gatto che passeggia sulla tastiera virtuale di un I-Pad).
“sgradevole” per l’episodio di Opera è un aggettivo un po’ fuori contesto (per rendere l’idea – non ti offendere, estremizzo – ricorda la contessa che si lamenta del baccano mentre sotto la sua finestra due bande si massacrano di botte, o il re che si lamenta della puzza mentre bruciano sul rogo le streghe), ne troverei un altro. Al paragrafo dopo, usi di nuovo sgradevole, che questa volta calza.
Hai perfettamente ragione sull’élite cognitiva, ma metterei un inciso (del tipo “nonostante l’atteggiamento provocatorio di Carlucci…”) a parziale scusante di Gilioli (perché dopo l’uscita della Carlucci, è già stato un signore a non scalare l’emiciclo e a non prenderla a testate).
Citare Mao per parlare di democrazia è come citare Ben Johnson sul tema del doping; se poi è per dire che la democrazia per dispiegarsi ha bisogno a volte di forzature, la cosda è ancora meno accettabile, perché fa pensare che si vogliano giustificare anche gli estremi “rimedi” degli omicidi di massa. Se vuoi salvare la citazione, elimina almeno il riferimento a Mao (lascia un generico “se come ha detto qualcuno…)
La domanda su cosa è wiki è fuorviante; probabilmente né una né l’altra, ma una delle infinite vie di mezzo possibile (mettiglielo nella domanda; “o una via di mezzo?”)
Alberto , il Digital Divide Cognitivo il vero ostacolo da superare.
Nel cassetto recupero l’idea di una freepress, FreePressTech, il cui obiettivo era proprio quello di veicolare un’uso consapevole di internet a chi percepisce Internet solo tramite il racconto dei media tradizionali oppure lo vive nel modo più facile e semplice, spesso con poca consapevolezza dell’implicazioni delle proprie azioni, attraverso la condivisione dei momenti di vita quotidiani su Facebook.
FreePressTech, un media tradizionale per “traghettare” i nuovi abitanti della rete ad un uso più consapevole della rete.
Una freepress proprio per diffondere a tutti, annullando barriere economiche (freepress) e culturali (non un magazine in edicola), gli strumenti ed esempi d’uso utili nella vita quotidiana.