Er… I’m an economist actually, madam. True though, my working tools have been kind of unusual over the latest years, since I started working on the creativity/innovation/development nexus: not only blogs and social networks, but also parties, barcamps and Second Life-Real Life mashups. Much if the stuff I do feels right, and a lot of it goes surprisingly well, but it is by no means easy being confident that I really am getting it right, and that I am not missing out important opportunities simply because I do not see them. The economics I studied at college does not help me in this; nor do the intellectual contributions picked up along the way, from game theory to new economic geography, from the regional analysis of innovation à la Saxenian to public choice theory, important as they are. And when you find itself spending taxpayer money to improve your Second Life avatar to generate credibility (ok, that was about five dollars, but it’s the concept that matters), well, then it’s time to update your theoretical framework.
I looked around for a few years and I think I have spotted a promising thread in complexity economics. It is the attempt to apply to the economic domain a conceptual framework that developed in completely different disciplines, from biology to meteorology, in which the classic approach based on reductionism and determinism was not yielding results. Though this approach can be traced back to – surprise surprise – Viennese school economists, Von Hayek in particular, the birthplace of the concept of complex system is generally thought to be the Santa Fe Institute. So I started to hang out with David A. Lane, who worked in Santa Fe and now teaches in Italy, and to exchange some thoughts with him. Lately we have been speaking a lot about Kublai, and two of his students are trying to conceptualize the Kublai social network as a complex system: the approach seems interesting, we’ll see what comes out of it.
Meanwhile I have started to read Complexity Perspectives on Innovation and Social Change, by David and others (forthcoming). Compared with his articles of the late 90s and early 2000s there is a noticeable development: the “complexity approach” of that time is turning into a full-fledged economic theory. And it accounts for something that IMHO badly needs accounting for: namely, that technical innovation does not exist. What does exist is innovation, that happens in the agents-artifacts-culture space, and that involves people, modes of interaction, new artifacts and the set of attributions concerning all of the above. Technology is a part of this, and it does not make sense analytical sense to separate it out from the whole.
For a plain, rank-and-file economist like myself, spoonfed on Keynes and Edgeworth, reading this stuff is like going on some kind of psychedelic trip. I read of “Darwinian accounts”, “funcional orthogonality”, “agent-artifact space”, “attributional shifts” and even “exaptive bootstrapping dynamics” – a locution which I have not even been able to translate into Italian – until my brain starts to smoke like on old, overheated engine. But it’s good, very good, and well worh the effort. And I can’t help thinking – with some kind of warped professional pride – that David teaches in a department of economics: there must be something right in a discipline that can question itself so deeply, and to keep on giving me, after twenty odd years, new stimuli.
Da sociologo costruttivista della complessità tradurrei “exaptive bootstrapping dynamics” come “dinamiche exattive di autosollevamento”… dove exaptation (leggersi le teorie postdarwiniste di Gould e Vrba) è capace di dare conto del rapporto tra funzioni e strutture, fra ottimizzazione ed imperfezione, in chiave non “adattazionista”… 😛
Oh per inciso, il concetto di autosollevamento può essere reso con la storia in cui il Barone di Münchhausen caduto in una palude riesce ad uscirne tirandosi fuori dal codino (così in voga nell’acconciatura maschile dell’epoca) …
Capisco che Keynes vacilli 🙂
Una curiosità: ma tutte queste belle storie non le avevamo già affrontate negli anni’80?
Giovanni: “exaptation” so da dove arriva, ma “exattivo” in italiano non esiste, per cui la traduzione distrugge informazione rispetto all’espressione inglese. Fino al Barone di Münchhausen, invece, ci si arrivava 😉
Non direi proprio che queste storie siano già state affrontate, almeno non da chi prende le decisioni. La politica dell’innovazione, almeno per quello che vedo io, no di sicuro: per esempio, gli incentivi fiscali agli investimenti in R&D sono basati su una teoria dell’innovazione ristretta allo spazio degli agenti. E, mi pare, nemmeno la tecnologia stessa: la legge di Moore (citata dallo stesso Lane) si muove nel solo spazio degli artefatti. E nemmeno il modo di affrontare il cambiamento sociale: la crisi finanziaria attuale, nonostante sia un sottoprodotto di processi di innovazione socioculturale – e nonostante la sua soluzione richieda altra innovazione socioculturale – viene affrontata essenzialmente con strumenti keynesiani.
Una delle ragioni per cui questo accade è che una teoria diventa potente se produce strumenti, e questo, temo, vuole dire studiarsi la relativa matematica. Una cosa è dire “Uhm, questa faccenda della complessità è davvero cool“. Una cosa completamente diversa è decidere – per dire – se, studiando Kublai dal punto di vista dell’economia della complessità, sia meglio misurare l’importanza dei singoli nodi con la centralità di prossimità o con la centralità negli autovalori. La seconda decisione richiede analisi quantitativa, che richiede molto tempo. Si procede lentamente e con fatica, per tentativi ed errori (molti), e non si può passare alla moda scientifica successiva senza perdersi la ricchezza dell’approccio che si abbandona.
Io nel mio libro sull’evoluzione mediale uso exattamento, così come nella traduzione di Gould… ammetto che non sia elegantissimo ma formalmente corretto 🙂
La battuta sugli anni ’80 era invece relativa alla recente “riscoperta” delle teorie della complessità da parte di scienze sociali che avrebbero dovuto imparare la lezione da un pezzo… poi si tratta di scelte epistemiche.
Sull’analisi di Kublai invece concordo perfettamente (io propenderei per la centralità di prossimità nei termini di network analysis) anche se credo che molto del lavoro fatto sulla teoria della complessità abbia mostrato come un mix efficace di quantiqualitativo dischiuda orizzonti importanti.
Intanto grazie del consiglio, Gio! Devo studiarmi un po’ di teoria dei grafi, uno dei compiti per le vacanze.
Ma che consiglio… figurati… è che sarebbe veramente importante riuscire a portare nell’ambito di riflessione la ricerca con le tecniche di network analisys unitamente alle possibilità di visualizzazione proiettiva in modo da sperimentare “modelli”.
Servono competenze diverse da mettere in gioco ma la sfida transdisciplinare è interessante… e poi, in fondo, è proprio questo il senso ultimo lanciato dalla teoria della complessità (Morin docet).
Tienici aggiornati 🙂
Sono stato studente di David per alcuni anni e sto (cercando) di preparare la mia tesi di laurea con il suo aiuto: ho studiato e mi sono occupato di social network dal punto di vista analitico e ora sto cercando di costruire un semplice framework teorico sulla falsariga del modello agenti/artefatti di David ma “specializzato” sulla produzione di software open source – in particolare mi piacerebbe, pur nel più totale empirismo, trovare le prove di come l’open source funzioni sia in forma volontaria che commerciale.
Anche io “sarei un economista”. Posso dire di aver avuto la fortuna di aver studiato questa materia in maniera poco ortodossa fin dall’inizio – i corsi di laurea che ho seguito sono unici in Italia, e rischiano di rimanere esperimenti mal riusciti, come ho scritto altrove.
A volte è abbastanza frustrante non sapere spiegare cosa si studia, la stessa difficoltà che stai riscontrando anche solo al tentativo di tradurre certe cose.
La matematica è molta, ma ben definita. La parte teorica da sviluppare, e questo è il campo in cui David è un’autorità, è forse ancora più estesa.
Davide, sembra molto interessante. Tienici informati!
Ciao Alberto e Giovanni.
Spesso la teoria della complessità viene ridotta a slogan o frasi fatte ed appiccicata qua e là, approfittando della sua natura multidisciplinare, senza cogliere l’assoluta necessità di inquadrare ogni “contaminazione” in un rigoroso quadro metodologico, nel quale rientra, per forza di cose, l’uso degli strumenti matematici.
Questo mi ricorda l’utilizzo superficiale e fuori contesto dei teoremi di incompletezza di Gödel o del principio di indeterminazione di Heisenberg (per non parlare della relatività…).
Non conosco Davide A. Lane, ma la sua frequentazione del Santa Fe Institute mi sembra una sufficiente garanzia… 😉
Cercherò di farmi regalare il libro (vabbè devo farmi anche regalare la follia baudeleriana di Calasso….sempre libri economici per Federico)
Federico, quanto hai ragione! Anche nel mio caso le banalizzazioni eccessive fanno scattare “la mia parte intollerante”, come direbbe Caparezza. Una volta mi è toccato leggere un’intervista a Morgandeibluvertigo che tirava in ballo il teorema di Gödel per giustificare non so quale canzone e quale album. Ma mi faccia il piacere, direbbe Totò.
Il libro di David non è ancora uscito. Mi informo su quando esce e ti faccio sapere 🙂