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Una nuova sfida: con il Consiglio d’Europa per l’innovazione sociale

Da qualche settimana ho l’onore di fare parte di un advisory group del Consiglio d’Europa. Si chiama “Creazione di posti di lavoro di qualità attraverso le reti” (dove le reti in questione sono sociali, non telematiche), e fa riferimento alla Divisione Ricerca e Sviluppo sulla Coesione Sociale. È un gruppo davvero interessante: alcuni dei componenti rappresentano governi nazionali (per esempio quelli tedesco, austriaco e norvegese) o enti locali (come il County Council Northumberland in UK, o il Comune di Getafe in Spagna); altri, completamente diversi, rappresentano reti quasi pirata che si adoperano per cambiare il mondo. C’è la Transition Network (nata in UK, ma ormai globale) , che tenta di aumentare l’autosufficienza alimentare, energetica e culturale delle comunità locali; c’è l’italiana Solidarete, che lavora per internazionalizzare le imprese sociali; ci sono i laconici e immaginosi ingegneri dell’Aeroe Energy and Environment Office, che riescono a generare localmente il 40% del fabbisogno energetico di una piccola isola danese. Le esperienze italiane sono le più numerose! Per una volta siamo all’avanguardia di qualcosa di importante. Io lavorerò soprattutto con Jean-Louis Laville, studioso dell’economia sociale tradotto in molte lingue, tra cui l’italiano.

Lavoreremo soprattutto sull’innovazione sociale, e di quali politiche possono aiutarla a svilupparsi. Sento che questo è un tema centrale: stanno emergendo nuovi soggetti che sanno muoversi sul mercato, ma usano il loro agire economico per obiettivi collettivi o addirittura sistemici. Questa è una novità che potrebbe avere conseguenze di portata vastissima in un’economia che, grazie alla collaborazione di massa abilitata da Internet, sta diventando sempre più efficace nella produzione di beni pubblici. Jean-Louis e io abbiamo l’incarico di cercare di capire come integrare questo tema nelle politiche mainstream; e questo pone il problema di come fanno i governi a imparare cose nuove, a integrare temi nuovi, e in definitiva a cambiare strada. Magari lo sapessi! Per ora ho la testa piena di domande, e forse una proposta per dove andare a cercare qualche brandello di risposte. Qui sopra ci sono le slides della mia presentazione del 4 ottobre.

La maledizione di Schumpeter


Per un certo periodo, negli anni 90, ho fatto il musicista rock professionista. Ho lasciato nel 2000, appena in tempo. Questa figura sta svanendo: chi ha una fan base già consolidata si attrezza per sfruttarla (e man mano si ritira dalle scene per sopraggiunti limiti di età), mentre chi comincia adesso può raggiungere rapidamente e con pochi investimenti un discreto successo su Last.fm o Spotify ma non riesce praticamente mai a costruire un’economia solida. Suoni nel tempo libero, l’abilità è trovare un lavoro che ti consenta di andare in tour. La stessa cosa, mi dicono, sta succedendo ad artisti dediti ad altre forme, come videomakers e cineasti. Un cocktail micidiale di tecnologie di produzione low cost e condivisione in rete ha scongelato enormi riserve di creatività artistica, rendendola, da scarsa che era, abbondante. E mentre lo faceva, ha piantato un paletto nel cuore dell’industria musicale, che si è polverizzata come un vampiro a mezzogiorno (necrologio di Dave Kusek). Un caso da manuale della distruzione creativa profetizzata da Joseph Schumpeter.

Ok, ma tanto “startups are the new rock’n’roll”, no? È lo stesso schema: giovani visionari e ossessionati dalle loro idee, partecipi dello spirito dei tempi, che diventano milionari a 23 anni, e ispirano i loro coetanei a rompere con la grigia routine delle ultime generazioni. E i giovani ci provano: i concorsi per business plans stile Working Capital hanno preso il posto dei concorsi per rock band emergenti (quelli a loro volta si sono trasferiti in televisione, che un modello di business invece ce l’ha eccome).

Però. Nell’ultimo mese ho trovato un post di Laurent Kretz, fondatore di Submate, che descrive in modo piuttosto crudo la vita dell’imprenditore di startup. Non è certo un mondo dorato: comprende vivere di sussidi di disoccupazione (per gli italiani immagino che l’equivalente sia abitare con la mamma), farsi piantare dalla fidanzata stufa di essere trascurata, rinunciare alle vacanze, essere inseguiti dalla banca assetata di vendetta. Ne sanno qualcosa i miei amici di CriticalCity, che stanno vincendo ma hanno pagato un prezzo umano molto alto.

Attenzione: questo non è il ritratto di uno che cerca un investitore. Kretz un investitore ce l’ha, solo che gli dà pochissimo denaro, lo stretto necessario per non fare morire di fame un team di quattro persone che lavorano ottanta ore alla settimana per quattro mesi. E così fa la maggior parte degli investitori early stage: ricordo Joi Ito, un paio d’anni fa, che diceva testualmente “io non investo se non ho una demo funzionante programmata in un weekend lungo da tre persone, e anche così investo al massimo cinquantamila dollari.”

Da allora Ito è andato avanti: la sua ultima esperienza è che un servizio web completamente funzionante richiede tre settimane di lavoro da parte di due persone: un designer e un programmatore che sviluppa il software. Questo perché il codice software è modulare: non si scrive da zero, ma si copiano-e-incollano routines già scritte. Questo processo è stato reso più fluido e scientifico dall’esistenza di tools di “metaprogrammazione”, che assemblano pezzi di codice di provenienze diverse in un programma integrato.

Non ci vuole un genio per capire che il mondo delle startup è entrato in una fase “ehi, tutti possono farlo!”. Siccome c’è un limite alla capacità di assorbimento di nuovi servizi e nuovi contenuti da parte del mercato, anche le capacità di progettazione e sviluppo software potrebbero rapidamente diventare abbondanti. Prima che il mercato del lavoro si adegui, potremmo perfino avere un periodo in cui un ingegnere informatico costa come un chitarrista rock, cioè meno di una baby sitter. È la maledizione di Schumpeter: quando il mercato funziona bene, rende tutto low cost o obsoleto.

Molti economisti interpretano la cauta formulazione di Schumpeter come un processo che produce un bene sul lungo periodo, perché rende accessibili cose utili che prima costavano molto, ma può essere molto destabilizzante nel breve. Secondo me si sbagliano, perché quello di Schumpeter non è un modello di equilibrio: se le velocità di distruzione e creazione non sono sincronizzate il lungo periodo potrebbe anche non arrivare mai. Cosa questo significhi sto cercando di scoprirlo.

Open data: e se usassimo Wolfram Alpha?

In molti paesi (e finalmente anche in Italia) le pubbliche amministrazioni cominciano a rilasciare i loro dati perché i cittadini li riutilizzino e li remixino. Già l’atto è importante, ma naturalmente questi dati genereranno tanta più energia sociale quanto più semplice e intuitivo sarà il loro utilizzo. Le strategie di usabilità che ho visto in giro sono molto, molto diverse tra loro.

A un’estremità dello spettro, alcune organizzazioni puntano sulla visualizzazione, per così dire, in-house. Un esempio è l’OCSE, con il suo eXplorer: un’interfaccia di visualizzazione sofisticata, che permette animazioni, mappe multistrato, integrazione con GoogleMaps. L’unico problema è che i dati rimangono bloccati lì dentro, e anche le visualizzazioni – il sistema le chiama “stories” – si possono vedere solo da eXplorer. L’unica cosa che puoi fare è esportarle sotto forma di un file XML da condividere con i tuoi amici e colleghi; ma poi loro devono caricarlo su eXplorer per poterlo leggere. In generale, il sistema è complicato e poco flessibile; inoltre, lo scalino per gli utenti novellini è piuttosto alto (il file di istruzioni è oltre 30 pagine).

All’estremità opposta ci sono esperienze come quella della Ragioneria Generale dello Stato italiano. Il database è scaricabile, e ci sono istruzioni per generare tabelle riepilogative. Purtroppo, sono molto specifiche: presuppongono che il cittadino usi una funzione specifica (tabelle pivot) di un particolare software, per di più proprietario e costoso (Microsoft Excel. Forse sarebbe stato più elegante riferire il tutorial a OpenOffice). Tranne che per gli utenti esperti di Excel, questo sistema è “tutto o niente”: o ti confronti con enormi tabelle di dati disaggregati o investi una mezza giornata per seguire il tutorial e provare a fare qualche ipotesi di aggregazione. Va bene per i ricercatori, ma non crea interesse per giocare con i dati in chi ricercatore non è.

Forse una buona via di mezzo è la strategia della Banca Mondiale. World Databank permette la creazione di semplici report (compresi grafici e mappe) direttamente sul sito ma consente anche di scaricarsi i dati in formati diversi. Così, un cittadino può fare una prima esplorazione direttamente dal sito: in un minuto scarso può già guardare un semplice grafico. Se poi ci prende gusto, scarica i database e costruisce le elaborazioni che preferisce con il software che preferisce.

Credo che il senso delle politiche di open data sia tanto più profondo quanto più si riesce ad allargare la comunità dei cittadini che sanno capire, riutilizzare e spiegare agli altri i database governativi. Per questa ragione consiglio assolutamente a quelle autorità pubbliche che volessero intraprendere questa strada di incorporare nei loro siti delle funzionalità di preview rapida, come quelle di World Databank.

Sviluppare queste funzionalità costa caro (eXplorer certo ha l’aria di costare caro). Una possibilità low cost è probabilmente quella di scrivere un widget per Wolfram Alph, il motore computazionale ideato dall’uomo che ci ha dato Mathematica. Le sue capacità di calcolo sono largamente adeguate a qualunque ragionevole uso in questo contesto (fa delle cose semplicemente sbalorditive: provate a inserire nella riga di ricerca “compare a mouse and an elephant”): il problema è piuttosto quello di aggiungere a fare comunicare Wolfram Alpha con i database governativi. Se si riesce, però, è possibile scrivere widget facilissimi da usare come quello qui sopra, senza contare che a quel punto i dati diventano accessibili a chiunque, in tutto il mondo, usi Wolfram Alpha, anche se non lo usa dal sito dell’autorità in questione — e che i widget possono essere facilmente copincollati in altri siti e blog. Più open data di così…

Lavorare con Wolfram Alpha permetterebbe alle autorità pubbliche di avere una modalità di preview interattiva in tempi rapidissimi, e con investimenti molto piccoli in sviluppo software; ed accrescerebbe il valore di Wolfram Alpha stesso, che naturalmente è funzione della massa di dati a cui riesce a accedere. Non è gratis, però: si pagano abbonamenti che coprono un certo numero di interrogazioni mensili. Ho provato a scrivere all’azienda chiedendo se hanno una linea sugli open data, vediamo se mi rispondono e cosa. La soluzione vera sarebbe una versione open source di Wolfram Alpha, ma non ho notizia di cose lontanamente simili.