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The economics of Cory Doctorow’s Makers (Italiano)

Makers è un romanzo, pubblicato nel 2009 dallo scrittore canadese di fantascienza e condirettore di Boing Boing Cory Doctorow. Parla di due imprenditori della scena DIY (quella di MAKE Magazine o della nuova rivoluzione industriale di Wired), Perry Gibbons e Lester Banks, che inventano cose nuove. Le loro invenzioni trasformano il mondo intorno a loro, non solo dal punto di vista tecnico, ma soprattutto da quello sociale ed economico. Esse fomentano la crescita di un modello organizzativo e di business fortemente decentralizzato che nel romanzo si chiama “New Work”. Me l’hanno consigliato alcuni amici physical hackers milanesi, che ho cominciato a frequentare nel 2008.

Quando ho letto il libro per la prima volta l’ho trovato profetico, nel modo in cui sa esserlo la migliore fantascienza; in più mi ha colpito quanto di esso si potesse tradurre direttamente in termini di teoria economica normalmente accettata. Dopo averci riflettuto per circa un anno sono diventato una specie di convertito (così tanto che ho partecipato a progetti basati su Arduino e ho cominciato a sperimentare con la politica economica per i makers). Allo stesso tempo, però – nel contesto di una ricerca, guidata da David Lane, a cui partecipo – ho cominciato a chiedermi se questa società dell’innovazione che stiamo cercando di costruire (almeno stando alla strategia di Lisbona e a molti documenti di politica industriale) sia poi sostenibile. Dopo tutto, se la quantità di innovazione aumenta, l’economia deve crescere a una velocità anch’essa crescente, ed è possibile che questo metta sotto stress l’ambiente naturale, o i nostri limiti umani. L’innovazione ha un lato oscuro? Quanta possiamo assorbirne senza che il sogno diventi un incubo?

Doctorow ha creato un’economia immaginaria abbastanza credibile che somiglia molto alla società dell’innovazione verso cui siamo diretti. Ho deciso di studiarla più da vicino, rileggendo il libro con gli occhi dell’economista. Makers non è stato ancora tradotto in italiano, quindi chi capisce solo la nostra lingua non può leggerlo. Per gli altri, il mio consiglio è: se vi interessano queste cose, leggetelo assolutamente. E’ una lettura stimolante e divertente.

La distruzione creativa di Schumpeter

Il motore princiale dell’economia di Makers è la teoria della distruzione creativa di Joseph Schumpeter. Viene enunciata già dal primo capitolo dal capitano d’industria Langdon Kettlewell, conferenza stampa che annuncia la fusione tra Kodak e Duracell:

Il capitalismo mangia se stesso. Il mercato funziona, e quando funziona trasforma tutto in merce low cost o obsoleta.

Alla fine della conferenza stampa, la giornalista Suzanne Church (ha fatto la giornalista economica a Detroit, occupandosi dello smantellamento dell’industria dell’auto) riflette sul senso di decadenza economica che la perseguita, perfino qui nella Silicon Valley, che in teoria dovrebbe avere incorporato il fallimento come tappa sulla strada del successo:

Era di nuovo immersa in questa atmosfera da declino industriale, con il senso di essere testimone non di un inizio, ma di un eterna fine, un ciclo di distruzione che avrebbe fatto a pezzi tutto ciò che sembrava solido e affidabile nel mondo.

Il crollo di margini e prezzi e l’obsolescenza, però, non dovrebbero essere pensati come un difetto del sistema. Tjan, il manager incaricato da Kodacell per aiutare Perry e Lester, ne è molto consapevole:

Quindi, se vuoi fare molto profitto, devi ricominciare, inventare qualcosa di nuovo, e spremerlo al massimo prima che venga imitato. Più questo succede, più tutto migliora e il suo prezzo scende. È così che siamo arrivati qui, sai? È a questo che serve il sistema.

Guerre di prezzo e equilibrio di Bertrand

Il meccanismo che controlla la distruzione nel processo schumpeteriano in Makers è fatto di intensa concorrenza di prezzo. I prodotti innovativi sono offerti a prezzo ridotto dagli imitatori, e questo permette loro di prendersi l’intero mercato.

In un buon mercato, inventi qualcosa e lo vendi al massimo prezzo che il mercato è disposto a pagarla. Qualcun altro trova un modo di farlo a prezzo più basso, o decide di accontentarsi di un margine minore […] e tu devi ridurre i prezzi per competere. Poi arriva qualcun altro che è meno avido o più efficiente di entrambi, e riduce il prezzo ancora, e ancora e ancora, finché non arrivi […] a una specie di base al di sotto della quale non puoi scendere, il prezzo minimo a cui puoi produrre senza fallire.

A parlare è Tjan, nel suo primo giorno di lavoro all’impresa di Perry e Lester; e quello che dice è una descrizione da manuale della concorrenza di Bertrand, un modello che sfrutta le guerre di prezzo come meccanismo per condurre ad un equilibrio in cui il profitto è zero.

Disoccupazione e problemi di economia del lavoro

La distruzione creativa ridispone i fattori produttivi di un sistema economico, in teoria per il meglio. Purtroppo, alcuni di questi elementi sono persone, e la riallocazione può comportare molto dolore, umiliazione e paura. Doctorow annida i problemi di economia del lavoro in profondità in Makers: la conferenza stampa di Kodacell è interrotta da una protesta di lavoratori licenziati. Nella sua prima email a Suzanne, Kettlewell pone la grande domanda sottostante al sistema:

Cosa succede quando tutto quello che sai fare non serve più a nessuno?

Alcune ricerche iniziate durante la recessione in corso gettano dubbi sulla possibilità di riqualificare grandi masse di lavoratori per adattarli ai mutati bisogni di un’economia basata sull’innovazione (New York Times). L’offerta di lavoro sembra ancora orientata a vendere ore-uomo e si aspetta di essere gestita in modo più o meno tradizionale.

L’innovazione ricombinante di Brian Arthur

Quando Suzanne arriva all’officina di Perry e Lester per vedere cosa fanno, Perry le mostra il loro metodo per inventare, che consiste essenzialmente di ricombinare tecnologia esistente in modi nuovi, come pezzi di Lego. Questo non solo è possibile, ma molto economico e concettualmente semplice, perché, come dice Perry:

Dovunque guardi ci sono aggeggi gratis che hanno tutto quello che serve per fare qualunque cosa ti venga in mente

E Lester è ancora più concreto:

Hai presente che dicono che uno scultore parte con un blocco di marmo e toglie tutto quello che non somiglia a una statua? Come se potesse vedere la statua nel blocco? Io sono così con la spazzatura. Vedo i pezzi buttati nei garages e capisco come metterli insieme

Makers accoglie la prospettiva sull’innovazione dei teorici della complessità, discussa da John Holland, Brian Arthur e altri ricercatori: fare cose nuove è soprattutto trovare nuovi modi di ricombinare tecnologia esistente, come i mattoni del Lego. Le combinazioni di successo, a loro volta, diventano mattoni, così che una tecnologia inizialmente semplice (le famose sei macchine semplici degli antichi greci) evolve verso livelli sempre più alti di sofisticazione.

L’open source e la velocità dei cicli di distruzione creativa

L’abilità di Perry e Lester di combinare le tecnologie in questo modo è enormemente accresciuta dal fatto che tutti i “pezzi del Lego” che gli servono si trovano anche in versione open source. Questo li abilita a sviluppare prototipi che funzionano da materiale disponibile sul mercato, e metterli in produzione senza preoccuparsi di acquistare licenze sui brevetti rilevanti. Questo ha due conseguenze. La prima è che, nel mondo di Makers, sono le tecnologie open source a generare più facilmente ecosistemi, perché le persone come Perry e Lester hanno tutto l’interesse a girare intorno alla tecnologia proprietaria; la seconda è che la velocità dei cicli di distruzione creativa aumenta molto.

Questa potrebbe essere l’intuizione più importante in Makers. Pensateci: a quanto pare, compriamo sempre di più per ecosistemi (Mac-iPhone-iPad-MobileMe, o Google-Android-Google Apps, or Linux-Apache-soluzioni proprietarie basate sul web di IBM); gli ecosistemi crescono più in fretta se possono appoggiarsi su elementi open source, per cui quelli open source tendono a mettere fuori mercato quelli proprietari; ma le innovazioni negli sistemi open source sono quasi impossibili da proteggere, e questo abbassa il loro margine medio perché il periodo in cui fanno profitti alti si accorcia. La soluzione, come dice Tjan (vedi sopra) e come dicono anche quasi tutti i governi, è quella di aumentare il tasso di innovazione. Questo, però solleva il problema di quanto rapidamente i consumatori possono assorbire innovazione. Chiunque usi molto il web conosce la sensazione che le aziende lancino nuovi servizi più rapidamente di quanto possiamo capire se ci servono, o ci piacciono, e qualche volta non abbiamo semplicemente tempo per studiarceli, non importa quanto siano potenzialmente interessanti. Avete presente Google Wave, no? Quindi, è possibile che la parte di distruzione della distruzione creativa prevalga, sprofondando l’economia di Makers in uno stato di bassi margini e bassa crescita economica, in cui le nuove invenzioni, quasi sempre, non riescono a trasformarsi in prodotti di successo sul mercato.

I sistemi produttivi competitivo-cooperativi di Becattini e Brusco

Perry e Lester gestiscono un’unità di business piccolissima (loro due e qualche aiutante) , per cui la loro competitività globale dipende dalla neutralità dei costi unitari rispetto al numero di unità fabbricate – in altre parole, non ci devono essere economie di scala. Infatti la loro officina in Florida è un’unità di produzione di scala efficiente. Secondo Tjan

Le industrie che ieri stavano nelle fabbriche oggi stanno nei garage

Naturalmente, non si può sfuggire al fatto che molte cose sono a buon mercato proprio perché la loro produzione sfrutta le economie di scala. Il trucco è che la produzione dei componenti tende ad essere soggetta a rilevanti economie di scala, ma gli artefatti di cui Perry e Lester si interessano no. In questo scenario, i sistemi produttivi più competitivi sono quelli che combinano l’agilità della disintegrazione orizzontale e verticale con costi di transazione bassi, fiducia reciproca tra gli attori economici e trasparenza informativa. La disintegrazione verticale permette alle imprese di crescere là dove ci sono economie di scala da sfruttare (componenti, chips di silicio); la disintegrazione orizzontale aumenta la concorrenza nel mercato dei prodotti finiti (anche se qualunque produttore si affermi finirà per comprare i componenti da un numero limitato di fornitori – e questo permette di risparmiare i costi di ricollocare la forza lavoro e la capacità produttiva quando un produttore guadagna forti quote di mercato); i costi di transazione bassi permettono a aziende “produttive” verticalmente disintegrate come quella di Perry e Lester
(che fanno poi soprattutto R&S e business development) di costruire rapidamente reti ad hoc di fornitori e partners.

I modelli di distretto industriale di Sebastiano Brusco e Giacomo Becattini hanno proprio queste caratteristiche (come, con sfumatore diverse, i lavori di ricercatori come Charles Sabel, Michael Piore e Annalee Saxenian). In Makers i bassi costi di transazione sono progettati dall’alto attraverso una grande azienda, Kodacell, che si dà una struttura a rete: in Brusco e Becattini, invece, emergono dal basso attraverso convenzioni che evolvono e effetti reputazione in un territorio relativamente piccolo. Così, quando Lester inventa Home Aware, si può costruire un ecosistema con le “squadre” di Kodacell:

Ci sono dieci squadre che fanno organizzazione degli armadi nella rete, e diversi spedizionieri, traslocatori ed esperti di immagazzinamento. Qualche azienda di arredamento […] Il piano è di iniziare a vendere attraverso i consulenti contemporaneamente all’esposizione del prodotto nelle fiere del mobile e dell’arredamento.

Il Living Lab della Commissione Europea

Dopo un incendio alla baraccopoli vicina alla fabbrica, Perry decide di permettere ai suoi abitanti di ricostruire le loro case provvisorie nella fabbrica Kodacell (che prima era un centro commerciale abbandonato), molto grande e in gran parte inutilizzata. Kettlewell cerca di convincerlo a mandarli via. Perry tiene duro: lui, Lester e Tjan stanno comunque pensando di inventare qualcosa per gli homeless.

Abbiamo costruito un Living Lab sulla soglia di casa per esplorare una grande opportunità di mercato per produrre tecnologia sostenibile e a basso costo per un segmento importante della popolazione, quello che non ha un indirizzo fisso. Ci sono milioni di squatters americani e miliardi di squatters nel mondo. Hanno soldi da spendere, e nessuno sta cercando di farseli dare.

Nel mondo reale i Living Labs sono un concetto esplorato dalla Commissione Europea nel contesto della politica dell’innovazione. L’idea è di sostituire i test di gradimento dei nuovi prodotti con test su scala molto più ampia e molto più realistici, resi possibili da reti dense di attori economici che collaborano su uno stesso territorio. La baraccopoli “domestica” di Perry diventerebbe così un modello in scala del mercato degli squatters: Kodacell può inventare un prodotto e collaudarlo rapidamente e a costi bassi su veri consumatori che spendono soldi veri. Ancora più importante, può reclutare gli stessi squatters per aiutarla a identificarei bisogni e progettare i prodotti. E lo fa: questo è il ruolo del leader della baraccopoli, Francis, che collabora strettamente con Perry e Lester per inventare i nuovi prodotti.

Il paradosso di Arrow e il valore delle invenzioni

Il fiasco del New Work è annunciato da una crisi di fiducia degli investitori in Kodacell. Parte del problema è che gli analisti faticano a capire come valutare le invenzioni, che stanno diventando una parte importante del valore delle azioni di Kodacell (l’altra parte è la difficoltà di trovare imprenditori bravi). Kodacell ha lanciato molti nuovi prodotti, e ha rendimenti alti su progetti piccoli. Quanti di questi progetti scaleranno e diventeranno prodotti di grande successo? Kettlewell:

Certo, se guardi [i nostri bilanci] dal nostro punto di vista, sono grandiosi. Se li guardi dal punto di vista di Wall Street, siamo nella m****. Gli analisti non riescono a capire come devono valutarci.

Questa è un’altra versione del famoso paradosso di Kenneth Arrow: i mercati per le informazioni in genere non funzionano bene perché, per stimare con precisione il valore di qualcosa devi sapere tutto ciò che la riguarda. Ma l’informazione, naturalmente, non ha valore di mercato per chi la conosce già. Le invenzioni, essenzialmente, sono informazione: finché non sono sul mercato e hanno percorso la curva di diffusione, è difficile capire quanto valgono davvero.

Il crollo del New Work e lo slittamento nelle preferenze dei consumatori

All’inizio della parte 2 di Makers il movimento New Work è finito. Un crollo in borsa ha distrutto il modello di business di Kodacell, che era stato imitato da altre grandi aziende come Westinghouse (che ha assunto Tjan, strappandolo a Kodacell). Il risultato è che il movimento è morto. Perry e Lester, ancora nel loro centro commerciale abbandonato in Florida, costruiscono “the ride” (difficile da tradurre: è una specie di parco a tema-otto volante- memoriale del New Work), che sarà il centro del resto del libro. Il fiasco del New Work è una delle parti meno convincenti del libro dal punto di vista di un economista: a parte il problema già menzionato di attribuire un valore di mercato alle invenzioni, non si capisce che cosa possa avere provocato più di una fluttuazione di breve termine. Kettlewell:

Gli analisti non riuscivano a capire come valutarci. Aggiungici un po’ di caos sul mercato, un po’ di gente che ha voluto pareggiare vecchi conti […] è già un miracolo che abbiamo resistito così a lungo.

In seguito a questi eventi, i consumatori smettono di comprare i beni prodotti dalle aziende New Work, il che è ancora meno convincente. Come dice Perry:

Le invenzioni non interessano più a nessuno.

Non c’è nessuna ragione ovvia per cui questo dovrebbe succedere. La seconda invenzione di Perry e Lester, Home Aware, ha avuto un grande successo, vendendo un milione di esemplari in sei settimane. In una situazione del genere, se il produttore originale esce dal mercato, in genere altre aziende prendono il suo posto per servire ed espandere la clientela esistente. Dopo il crash delle dotcom nel 2000 i consumatori hanno aumentato la loro domanda dei servizi online che trovavano utili, senza preoccuparsi troppo degli indici di borsa. Yahoo, Google, Amazon hanno continuato a esistere e prosperare, nei rispettivi mercati di sbocco se non sui listini. Ho dato uno sguardo alle serie storiche degli indici NASDAQ e delle vendite tramite e-commerce in America nel periodo 1999-2009, e la correlazione è sostanzialmente inesistente (addirittura negativa), come vedete dal grafico seguente:

Quindi: la società dell’innovazione in Makers è sostenibile?

Le domande sulla sostenibilità sono difficili. Più volte gli scienziati hanno predetto catastrofi suscitando grandi clamori nell’opinione pubblica, che ha rovato queste predizioni convincenti. Da Malthus al Club di Roma e al Millennium Bug, ci siamo sempre cascati: sembra che abbiamo una predisposizione a sottovalutare la capacità di adattamento della società e dell’economia (cambiamenti culturali riducono il tasso di fertilità, l’aumento dei prezzi dell’energia aumenta l’efficienza energetica del PIL e così via). La catastrofe ci sembra in qualche modo convincente: forse è solo un’eredità del nostro passato preistorico, o forse è un mito culturale molto radicato (Apocalisse, Ragnarok ecc.). Certamente, questo suggerisce molta, molta cautela nel fare predizioni in questo senso.

L’economia del New Work è almeno plausibile; la parte meno plausibile è proprio quella della sua fine. Mi sarei aspettato uno sviluppo del tipo: Kodacell e Westinghouse incoraggiano lo spinoff delle loro unità New Work, o le vendono ad aziende più agili e con meno costi fissi. Questo rende economica anche la struttura organizzativa e finanziaria a rete che era stata il vantaggio competitivo di queste grandi aziende per gente come Perry e Lester. Dopo tutto, la storia dell’open source mostra già con chiarezza che non è necessaria una grande organizzazione per coordinare attività complesse. Il libro, però, ha un finale decisamente pessimista: la grande azienda malvagia ha vinto la battaglia contro il movimento The Ride, e ha assunto Lester, neutralizzando il suo potenziale innovativo; Perry è diventato una specie di tecnico errante, solo e impoverito. Doctorow l’economista sembra sostenere l’idea di società dell’innovazione, ma Doctorow l’autore certamente no. Mi chiedo quale dei due Doctorow, alla fine, avrà avuto ragione.

Contro i beni di lusso (e Slow Food)

In quasi tutti i sistemi fiscali i consumi di lusso sono scoraggiati con una tassazione più pesante rispetto a quelli ritenuti “normali”, qualsiasi cosa questo significhi. In qualunque corso introduttivo di scienza delle finanze vi diranno che ci sono due ragioni per questo. Una è che la domanda di questi beni è meno reattiva al prezzo di quella dei beni non di lusso. Quindi un aumento della tassazione si tradurrà in una riduzione della domanda (quindi in una diminuzione del PIL), ma essa sarà minore di quella che si sarebbe avuta tassando allo stesso modo beni non di lusso. L’altra ragione è che sono in genere i ricchi a consumare maggiormente questi beni, e gli economisti sono addestrati a considerare l’equità distributiva un valore. A parità di altre condizioni, meglio tassare i ricchi.

Queste argomentazioni sono valide in un modello statico e in equilibrio. Di equilibrio, perché si concentra su quella condizione ideale (e di fatto non verificabile nella realtà) in cui tutti i consumatori hanno massimizzato la loro utilità, e tutte le imprese il loro profitto. Statico, perché in esso manca il tempo. In particolare, manca il progresso tecnico.

Per questa ragione sono contrario al movimento Slow Food, e alla presenza sempre più invadente della filiera enogastronomica nel discorso italiano sullo sviluppo locale. Hai presente il gnocco fritto? Le mie zie a Reggio Emilia lo facevano a primavera per tutti i nipoti. Potevi mangiarlo in certe trattorie dell’appennino a prezzi ridicoli. Era buono ed economico. Era un sapore di casa. Si friggeva (obbligatorio) nello strutto. Si annaffiava con il lambrusco fatto in casa, con le bollicine che scrostano il grasso di maiale dallo stomaco. Bene, dimenticatelo. Da oggi il gnocco fritto si mangia nei ristoranti infighettati con finti strumenti musicali appesi alle pareti e l’adesivo del Gambero Rosso (“cus’ela?” avrebbe brontolato mia nonna, una vera esperta in materia). Si frigge nell’olio, addensato e agglutinato per dargl la consistenza dello strutto. Costa 35 euro a coperto, e non è affatto più buono di quando costava cinquemila lire vino compreso.

Ma c’è di peggio. I marchi di garanzia che proliferano nella nostra tanto decantata filiera del gusto vengono concessi agli alimenti che vengono prodotti rispettando dei protocolli chiamati disciplinari. Nei disciplinari c’è scritto non solo cosa, ma come devi produrre. E questo è decisivo, perché blocca l’innovazione. Se vuoi il marchio devi fare tutto esattamente come tutti gli altri che hanno quel marchio. La conclusione è che i grandi prodotti veramente buoni per definizione non possono avere marchi; i grandi vini, per esempio, non sono Doc, perché mischiano vitigni di provenienze diverse per ottenere prodotti di eccellenza. Paradossale? No, perché i marchi di garanzia mica servono a fare prodotti buoni: servono ad alzare i margini. Se un genio dell’agronomia riuscisse a fare uno spumante buono come il Veuve Cliquot, ma che costa come il Tavernello, o un formaggio buono come il parmigiano reggiano con latte di cammello a cinque euro al chilo, non troverebbe nessuno disposto a dargli un marchio. Il marchio garantisce i prodotti esistenti contro la concorrenza di quelli nuovi.

Conclusione: Slow Food, come buona parte della filiera del gusto, spinge verso il mondo del lusso prodotti buoni ed economici, inventati dai nostri nonni con poco denaro e molta inventiva, e riduce il loro potenziale di raggiungere le masse. In più, disincentiva l’innovazione, facendo investimenti di marketing su marchi che garantiscono il processo di produzione e non il prodotto. Un equivalente nel mondo della tecnologia potrebbe essere un marchio di qualità per i giornali scritti a macchina anziché al computer (Slow Writing); uno nelle pubbliche amministrazioni un ufficio anagrafe che non rilascia certificati online, ma solo allo sportello (Slow Service). A me sembra una perdita secca per la società, e credo che le politiche pubbliche dovrebbero scoraggiarla, ma magari sbaglio io.

L’ultima speranza di Milano

Hub Milano

Ero appena sceso da un’aereo, e quindi abbastanza cotto. Ma il fondatore Alberto Masetti-Zannini mi ha invitato con tanta gentilezza che ho deciso di non passare neanche da casa e fiondarmi direttamente alla festa di inaugurazione di Hub Milano. Ho fatto bene.

Intanto era una bella festa. C’era da bere e da ballare. I padroni di casa e ospiti, visibilmente contenti, ci hanno dato dentro con entrambe le cose. Poi mi fa piacere che l’Italia, avvezza a perdere treni, riesca a esprimere un nodo della rete degli Hub. Ma la cosa straordinaria era che, sebbene molte persone si stessero incontrando per la prima volta, tutti sembravano fare parte di una stessa scena: il top management di CriticalCity al completo con Medhin Paolos di Reti G2 (secondo me una delle realtà più interessanti del nonprofit italiano), Beniamino Saibene di Esterni, Emil Abirascid, il direttore di Euclid Network (è una rete europea di leader del terzo settore, con base a Londra) Filippo Addarii, Luca Perugini con Roberto Bonzio (quello di italianidifrontiera), Andrea Paoletti, l’architetto che ha progettato Hub Milano e altra roba anche più strana… Purtroppo la concomitanza con l’inagurazione del museo Campari ha fatto sì che mancassero Massimo Banzi e il suo gruppo, un pezzo decisivo di questa Milano.

La diversità estrema delle competenze – di tutto rispetto – e l’accessibilità professionale reciproca di queste persone sono evidenti. Vederli divertirsi e stare bene insieme mi ha dato una bella sensazione: quella che abbiano in comune alcuni valori chiave e un certo modo di andare incontro al mondo. Per una volta sono andato a casa (a un’ora indecorosa) permettendomi un cauto ottimismo: forse Milano ha ancora una speranza, forse da queste persone può nascere un progetto che rimetta la città in pista. E per estensione il paese, perché ho pochi dubbi che la partita più importante sul futuro dell’Italia si giochi a Milano.