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Introducing the citizen expert


Ormai da qualche anno studio la collaborazione tra istituzioni e cittadini abilitata da Internet. Mi capitato di spiegarne le linee essenziali ad amministratori, accademici, rappresentanti eletti, cittadini. C’è un punto su cui quasi tutti fanno obiezioni, almeno inizialmente: quando dico che la collaborazione online funziona bene perché i partecipanti non sono selezionati da nessuno. È controintuitivo: come è possibile che un ambiente NON selezionato produca risultati di qualità migliore di uno in cui si effettua un rigoroso controllo qualità? Eppure, così accade, grazie alla combinazione di numeri molto più grandi (in un ambiente non selezionato c’è molta più gente) e autoselezione (le persone si presentano alle discussioni su temi di cui si sentono esperte e appassionate). So bene che dovrò ripetere l’argomentazione moltissime volte, perché sono tante le persone, ma per quanto mi riguarda la questione è risolta. La collaborazione online tra cittadini e istituzioni funziona, e se non funziona vuol dire che è progettata male.

Questo produce una nuova figura nei processi politici: il citizen expert. Tutte le esperienze di successo che conosco hanno prodotto figure di riferimento, cittadini che si sono appassionati alla discussione e vi hanno apportato contributi di qualità molto alta. Queste persone sono in genere dei totali sconosciuti che si rivelano preziosi per i processi a cui partecipano, e sorprendono gli osservatori per competenza e passione, e danno, di fatto, il tono al dibattito. I grafici dell’inquinamento atmosferico pubblicati da Davide Davs nel gruppo di Area C sono oggetto di moltissimi commenti, e fanno sì che appoggiare le proprie argomentazioni ai dati diventi, in quella discussione, il modo di discutere accettato come il migliore.

Tutto questo funziona bene online. La mia squadra e io abbiamo deciso di fare un esperimento nell’ambito di Edgeryders, il progetto che dirigo al Consiglio d’Europa: portare i nostri citizen experts in un evento offline. La nostra idea è questa:

  • prendere un gruppo di cittadini NON selezionati ma autoselezionati.
  • socializzarli attraverso una comunità online orientata alla discussione costruttiva.
  • organizzare una conferenza dove possono interagire con policy makers ed accademici.
  • trattarli come esperti: invito ufficiale, viaggio e soggiorno (basico) pagato, responsabilità di produrre dei deliverables. Il messaggio è: tu non sei un utente o (peggio ancora) un beneficiario delle politiche pubbliche, ne sei un protagonista, un policy maker.
  • chiedere loro di produrre proposte di riforma – nel nostro caso delle politiche europee della gioventù.

Sono convinto che i risultati saranno straordinari. Le condizioni ci sono: i policy makers possono spiegare quali sono i limiti e le opportunità del loro mandato; gli accademici contribuire con dati statistici e analisi. I citizen experts mettono sul tavolo i dati vivi delle loro esperienze, più semplici di quanto non si creda da generalizzare in idee e proposte. Se sono in numero abbastanza alto, e lo saranno, possono contribuire anche con un sentire comune, come un focus group molto grande. Grazie alla discussione sulla piattaforma Edgeryders lo stile di discussione è stato depurato da pensiero normativo (“il mondo non dovrebbe essere così!”), asserzioni non dimostrate (“è chiaro che l’età del capitalismo volge alla fine”) e atteggiamenti da troll (“siete tutti al soldo delle multinazionali”). I partecipanti si sono accreditati come interlocutori gli uni degli altri (i ricercatori accademici hanno i loro profili su Edgeryders, e interagiscono con la comunità di cui sono parte) e quindi siamo liberi di cercare soluzioni e strade nuove. Del resto abbiamo fatto un prototipo il mese scorso, e la discussione è andata molto al di là delle mie aspettative: produttiva, fluida, divertente. Si vede perfino dalle foto!

Crediamo in questa soluzione così tanto da investire un quarto del budget di Edgeryders in questa conferenza – cioè in rimborsi per le spese di viaggio per i citizen experts. Dovremmo essere in grado di invitare 100-120 giovani da tutta Europa, che convergeranno su Strasburgo il 14 e il 15 di giugno. La comunità ha già reagito lanciando una unconference per il 16 e 17, in modo da avere più tempo per discutere e progettare il futuro insieme. Se vi interessa la transizione dei giovani alla vita adulta e indipendente, potreste fare il citizen expert: sul blog di Edgeryders trovate le istruzioni per partecipare, il programma e la chiamata alle armi di Vinay Gupta. Se funziona, sarete parte di una piccola innovazione: una nuova tecnologia di interazione online/offline per la collaborazione tra cittadini e istituzioni. E io credo che funzionerà.

Oltre le tre F: il reddito minimo come politica per l’innovazione

A tre mesi dal lancio di Edgeryders, mi colpiscono la generosità e la creatività con cui tanti giovani affrontano il loro viaggio nella vita. Alcuni abbandonano il percorso di carriera più naturale, in cerca di altro e a costo di sacrifici; moltissimi desiderano di “fare qualcosa di utile”. Pensano in grande, e non hanno paura di misurarsi con problemi globali come la sicurezza alimentare, la riprogettazione della socialità, l’accesso agli alloggi. Tutta questa energia si incanala in attività di innovazione, spesso molto ambiziosa e radicale: agricoltura urbana, co-housing, moneta sociale, dati pubblici aperti, giochi urbani per riappropriarsi di spazi pubblici, home schooling, apprendimento peer-to-peer.

A innovare è una minoranza, come e sempre stato. Ma questa minoranza ha due caratteristiche nuove rispetto al passato: è numericamente consistente, fatta di milioni di persone anziché di decine di migliaia; ed è autoselezionata, e molto diversificata al suo interno. Sebbene essa annoveri molti membri dell’élite, in possesso di credenziali accademiche prestigiose, ospita anche molti spiriti liberi, persone che non hanno finito gli studi perché insofferenti alle gerarchie accademiche, autodidatti. La distanza tra i giovani innovatori e l’élite è marcata da un fatto evidente: quasi tutti questi innovatori sono poveri , appena in grado di mantenersi ma impossibilitati ad accumulare ricchezza materiale (hat tip: Vinay Gupta). Circola la battuta che, se cerchi i capitali necessari a lanciare un’iniziativa di innovazione sociale, è inutile rivolgersi a banche, venture capitalists o pubblica amministrazione. Gli unici che ti aiuteranno sono le “tre F”: family, friends, e fools (hat tip: Alberto Masetti-Zannini).

La scala e la diversità della minoranza degli innovatori apre una prospettiva completamente nuova: quella di una politica adattiva dell’innovazione. Oggi le politiche dell’innovazione funzionano selezionando a priori, con l’aiuto di famosi accademici, poche direzioni di ricerca strategiche, in genere articolate in termini di big science (per esempio la fusione fredda o la nanotecnologia) e concentrandovi grandi quantità di denaro pubblico. Oggi è possibile un approccio diverso: fare molti piccoli investimenti, in una logica di diversificazione, lasciando che tantissimi innovatori scelgano da soli quali problemi affrontare e come; monitorare per l’emergenza di soluzioni interessanti e scalare poi gli investimenti su quelle, premiando quindi non la direzione delle attività innovative i loro risultati. Questo approccio ha i vantaggi di dipendere assai meno dalla saggezza a priori del policy maker; e di scoprire a posteriori quali sono i problemi che la comunità degli innovatori ritiene più pressanti, e quali le linee di lavoro più in grado di produrre risultati concreti per la loro soluzione. È un approccio low cost alla valutazione, attività molto costosa se fatta bene.

Pensavo a queste cose domenica, assistendo a un convegno in cui si discuteva di reddito minimo. Nella sua versione più semplice, si tratta di un reddito sganciato dal lavoro o dal possesso di ricchezza: vi hanno diritto tutti, per il solo fatto di esistere. Non sono un esperto, ma ho capito che viene inquadrato come una misura volta a ristabilire la dignità delle persone, a renderle più sicure meno ricattabili. Tutto questo ha molto senso, ma mi viene da pensare che il reddito minimo potrebbe essere anche una misura di politica dell’innovazione: liberi dal bisogno immediato, soprattutto i giovani sarebbero più in grado di assumersi dei rischi, lanciandosi in nuove idee. La maggior parte fallirebbe, come sempre accade, ma questi fallimenti costerebbero pochissimo), e quelle di successo potrebbero avere impatti straordinari, largamente in grado di pagare i costi dell’intera operazione. In effetti credo che il costo per la collettività del reddito minimo sia zero: anche adesso nessuno muore di fame, si tratta solo di spostare capacità di spesa da soggetti garantiti a soggetti non garantiti!

Tutto questo si traduce in un mix di politiche dell’innovazione che investe meno su attività (come la ricerca di laboratorio) o su organizzazioni (imprese o università) e più sulle persone. L’idea di base è metterle in grado di attaccare i problemi che ritengono importanti, poi togliersi di mezzo e valutarne i risultati. Che è poi semplice buon senso, a meno che non si ritenga che le persone – i giovani, in questo caso – siano normalmente ciniche, pigre o peggio.

La fatica della diversità: arricchire la governance senza che perda di coerenza

Photo: whatleydude @ flickr.com
Non tutti concordano sull’idea che i processi partecipativi conducano a migliori decisioni pubbliche. Certamente essi consentono al decisore l’accesso alla straordinaria ricchezza di informazioni ed esperienza viva accumulata dai cittadini: questo è il vantaggio, e non è poco. Ma ci sono anche due svantaggi.

  • questa informazione non è organizzata. Non è solo questione di linguaggi: persone diverse hanno esperienze diverse, e vedono le cose in modo diverso. Se chiedete a qualcuno un parere sulla pedonalizzazione di una strada del centro città, per esempio, riceverete una risposta completamente diversa a seconda non solo del suo ruolo rispetto al provvedimento (abita in quella strada? O ci lavora?), ma anche del suo sistema di valori, del suo stile di vita e della sua personalità. Un ciclista appassionato, o semplicemente una persona fisicamente in forma, tenderà a vedere i vantaggi della pedonalizzazione, mentre una persona più pigra ne vedrà più gli svantaggi. Dipende da chi si incontra! La partecipazione dei cittadini (quando i partecipanti non sono molti, cioè quasi sempre) introduce un elemento di casualità nella procedura decisionale – e questo è un problema per i decisori pubblici, che devono potere giustificare le loro scelte.
  • la discussione può diventare faticosa. Discutere è una tecnica, e non tutti la padroneggiano allo stesso modo. I decisori pubblici sì, perché è parte del loro lavoro; i cittadini non sempre. Alcuni sono aggressivi o logorroici; altri fanno riferimento a valori o informazioni non accettati da tutti (“inutile pedonalizzare, tanto il mondo finirà fra otto mesi, l’ha detto Nostradamus!”). Alcuni possono tentare la mossa retorica di delegittimare il processo se non ottengono quello che vogliono (“Inutile chiamare i cittadini se poi non li stai a sentire!”). Stili diversi di discussione possono impedirne la convergenza tanto quanto posizioni diverse.

Io sono convinto che questi problemi siano superabili a costi molto bassi – e l’ho scritto in Wikicrazia. A una condizione: che i cittadini partecipanti siano reclutati da una comunità di persone orientata alla governance collaborativa. Preferibilmente da una comunità online. Infatti:

  • i membri di queste comunità si validano a vicenda in modo ricorsivo (come fa Pagerank con le pagine web). Una persona che esprime posizioni sagge e condivise conquisterà reputazione e autorevolezza. Se la comunità è online queste persone si vedono molto bene dall’accumulo di commenti, condivisioni, likes, retweets, +1, qualunque sia la moneta reputazionale di quella comunità. “Pescare” dalle comunità aperte le persone più apprezzate riduce la casualità della partecipazione.
  • la comunità socializza alla discussione costruttiva. Se la comunità è gestita bene, i trolls vengono isolati. Le persone sensate e rispettose discutono tra loro, ricompensando ogni contributo saggio con la moneta reputazionale citata prima. Anche questo è più semplice online, dove le tecnologie di interazione non consentono a nessuno di impossessarsi della parola e tenerla, o gridare, o interrompere. I membri più stimati di queste comunità sono di solito persone con cui discutere è utile, e perfino piacevole anche se non si è d’accordo con le loro posizioni.

E siccome ne sono convinto, sto per tentare un esperimento senza rete: convocare, con status di esperti, alcuni membri della comunità di Edgeryders per farli discutere con gli accademici e i funzionari delle istituzioni europee (se ti interessa partecipare, informazioni qui). Arricchiranno la discussione senza aumentarne l’entropia?