Il New York Times ha pubblicato un articolo sulle dure conseguenze della crisi economica a Dubai, che comporterebbe tra l’altro la fuga improvvisa di molti lavoratori stranieri oppressi dai debiti, e quindi a rischio di essere puniti duramente – vista la severa legislazione degli Emirati in questa e altre materie. Questo argomento si salda, nell’articolo, al problema dei diritti umani dei lavoratori stranieri negli Emirati. Molte persone che hanno letto l’articolo si sono ricordate dell’imprenditore e attivista Joi Ito, una delle persone più connesse del nostro pianeta, che si è recentemente trasferito a Dubai e hanno cominciato a mandargli messaggi preoccupati via Twitter. Joi ha risposto pubblicando un post in cui offre il suo punto di vista di residente sulla situazione. Che è il seguente: l’articolo non descrive in modo accurato la situazione e usa il tema dei diritti umani in modo sensazionalistico e, alla fine, improduttivo, in quanto indebolisce la credibilità dei media nel denunciare situazioni di disagio o illegalità.
Il post ha raccolto consensi, ma anche molte critiche di gente che si è arrabbiata sul serio. Joi, come puoi difendere una corrotta teocrazia medievale? Joi, il tuo stile di vita è costruito sul lavoro servile degli stranieri a Dubai? Joi, sei una persona importante e vivi lì. Perché non fai qualcosa per i diritti umani negli Emirati? E così via. La parola “tradimento” non viene usata nei commenti, ma la senti aleggiare nell’aria.
A questo punto Joi ha scritto un post di follow-up per chiarificare la propria posizione. Il passaggio chiave merita una traduzione:
Sono stato un attivista per una gran parte della mia vita – dando del bugiardo ai ministri in TV, marciando per strada con un megafono, e protestando contro tutte le politiche governative giapponesi su cui avevo opinioni forti. Non ho paura di prendere posizione su qualcosa che sento come un’ingiustizia. Ma con gli anni ho capito che strategia, contesto e comprensione della situazione dal punto di vista delle persone a cui ti stai rivolgendo sono essenziali per costruire un cambiamento.
Non potrei essere più d’accordo. Nel mio piccolo, anch’io, come Joi, ho una storia di militanza alle spalle. Non posso e non voglio tradirla. E proprio per questo non posso fare finta che l’indignazione, la protesta fine a se stessa, il qualunquismo e il vaffa siano delle soluzioni vere. Lo sarebbero se il ruolo del militante fosse quello di sollevare i problemi, lasciando alla politica come professione il compito di cercare soluzioni attraverso la mediazione. Forse nell’Italia degli anni Cinquanta era proprio così, e una manifestazione di piazza serviva a migliorare il potere contrattuale di un partito amico al tavolo di mediazione: ma da molto tempo, e tanto più su temi che non conoscono frontiere, questo meccanismo non funziona più. Nel caso di Dubai, la virtuosa indignazione dell’occidentale contro le “teocrazie medievali” del Medio Oriente è soddisfacente per chi la pratica, ma inutile o controproducente per le persone che più soffrono per quel problema. Se si vuole avere impatto occorrono intelligenza, pazienza, empatia, umiltà. Si potrebbe cominciare sostenendo chi sta cercando di risolvere i problemi, per esempio.
AGGIORNAMENTO: Partendo da un fatto completamente diverso, Clay Shirky riflette sul piacere che traiamo dall’indignarci, che rischia di annebbiare il nostro giudizio.